Formazione

L’islam femminileche pensa a viso aperto

Gli autocritici Storie di pensatori (e pensatrici) musulmani senza timori

di Redazione

Nel 2006 il governo britannico, per ricordare gli attentati del 7 luglio 2005, ha riunito a Istanbul i maggiori esponenti dell’islam europeo. Ne è risultato un dibattito franco e ferocemente autocritico e un manifesto contro il terrorismo fondamentalista, la Dichiarazione Topkapi.
La scelta è caduta intelligentemente su Istanbul, luogo simbolico, “limbo” tra il mondo occidentale e quello musulmano: qui era infatti possibile coinvolgere autorità islamiche che non sarebbero state accettabili in Occidente – come lo sceicco Al-Karadawi, il quale ha giustificato le “operazioni di martirio” in Israele e Iraq. A Istanbul sedeva pazientemente tra il pubblico, prendendo atto che gli oratori europei, uno dopo l’altro, bollavano il terrorismo suicida come inqualificabile e non musulmano.
Alcune tra le più grandi autorità del mondo sunnita sedevano tra il pubblico – il discusso Jussuf A-Karadawi del Qatar, il mufti dell’Egitto Ali Gomaa e l’anziano sceicco dell’Arabia Saudita, Bin Bayyah. Accanto a loro i popolari intellettuali delle giovani generazioni – il predicatore televisivo egiziano Amr Khaled, Hamza Jusuf dall’America e lo svizzero Tariq Ramadan. «Noi condanniamo e detestiamo le azioni violente di una piccola minoranza di musulmani che hanno scatenato la violenza e il terrore contro i loro vicini e concittadini, stravolgendo l’insegnamento dell’islam», si è affermato, ma si è anche esplicitata l’intenzione di uscire dal comodo cantuccio vittimistico in cui si è incancrenito il dibattito tra musulmani ed europei.

Effetto incapsulamento
La giovane sociologa egiziana Hebba Rauf Izzat, ad esempio, ha criticato la tendenza all'”incapsulamento”. Anziché coltivare la diversità, sarebbe più utile chiedersi cosa potrebbero fare i musulmani per contribuire al fiorire delle società europee, ha affermato.
Tariq Ramadan si è spinto ancora più avanti nell’autocritica: «Dobbiamo criticare, nel nostro stesso interesse, la violenza domestica, i matrimoni combinati e l’ineguaglianza tra uomo e donna – e non solo perché ciò viene posto sotto la nostra attenzione dall’esterno». Ha poi definito le leggi draconiane nei Paesi islamici – come ad esempio la lapidazione delle donne infedeli – come “non islamiche”. Ha addirittura mostrato comprensione per il fatto che molti europei temano l’islam, sostenendo che i musulmani non possono spiegare ogni critica a loro rivolta con i pregiudizi e l’islamofobia. L’obiettivo deve essere la costruzione di “un nuovo noi”, valorizzando i principi positivi della cultura europea. Si tratta di un cambio di prospettiva: il punto di riferimento si sposta dall’Umma alla cittadinanza europea.
Bene, tutto questo attivismo finanziato da europei solleciti nel farsi autopropaganda diplomatica è fondamentale ma non sufficiente. La critica più incisiva, che può scardinare le fondamenta fossilizzate, incancrenite su cui si sorreggono le società musulmane, deve partire dall’interno. Come un anticorpo, l’unico, in grado di estirpare il germe della patologia integralista.
Lapalissiano: il nemico è interno, devi agire dall’interno. Chi lo ha fatto non ha ricevuto sufficiente supporto o difese per poter continuare a farlo, oppure ha pagato un prezzo troppo alto.
Prendiamo l’egiziano Hamid Nasr Abu Zeid. Per la sua visione non integralista dell’islam, Zeid, professore universitario e scrittore, venne denunciato da un suo collega islamista. Il tribunale sentenziò che la moglie, professoressa anch’essa, da buona musulmana doveva divorziare dal marito. I due hanno respinto la sentenza e hanno iniziato a ricevere minacce di morte sempre più pressanti, tanto da costringerli a cambiare casa, scortati dalla polizia 24 ore su 24. Costretti a lasciare il lavoro, hanno dovuto infine lasciare l’Egitto e trasferirsi in Europa. Ma tutto questo perché? Cos’aveva di tanto blasfemo il pensiero di Abu Zeid?
Il punto fondamentale della sua riflessione critica, seppure credente, riguarda la rivelazione. Abu Zeid propone una riflessione sui fondamenti della fede islamica ed uno studio critico delle sue origini, delle sue fonti e della sua tradizione, e questo perché responsabile del testo coranico sarebbe, insieme ad Allah, il profeta Maometto che avrebbe riferito la rivelazione servendosi delle categorie culturali del suo tempo. Occorre quindi restituire il Corano al suo contesto, sottoponendolo a una duplice analisi, storica e linguistica. Posizione che, senza negare il messaggio universale del testo, chiaramente impedisce qualsiasi manipolazione politica o ideologica, e soprattutto costituisce la critica più radicale di ogni forma di fondamentalismo.
È un pensiero a mio parere lineare e indispensabile nell’evoluzione delle società, ma inimmaginabile per la struttura rigida, patriarcale e “inderogabile” degli attuali Paesi musulmani…
L’egiziana proibita
Un’altra dissidente che ha pagato personalmente è l’egiziana Nawal El Sadawi. Scrittrice settantenne, ha subito violenti attacchi nel corso di tutta la sua vita: licenziata dal lavoro per le sue idee femministe, arrestata nel 1981 per le sue opinioni democratiche e infine più volte condannata a morte dai fanatici islamici.
Sostiene con forza la sua ostilità al velo, all’infibulazione, pratica non religiosa ma comunque molto diffusa, e il suo appoggio all’emancipazione femminile. Inoltre ha scritto una trentina di libri sulla condizione delle donne ma sono sempre stati interdetti alla Fiera del libro del Cairo. Una provocatrice perenne ma che solleva dubbi e problemi fondamentali.
Ebbene anche lei ha dovuto affrontare un processo per apostasia, per la pubblicazione in un’intervista dell’affermazione «Il pellegrinaggio alla Mecca è una pratica pagana», che lei tra l’altro sostiene di non aver mai detto.
C’è poi Shirin Ebadi, iraniana, premio Nobel per la pace, che è avvocato per i diritti civili e difende i perseguitati politici, odia il copricapo obbligatorio e lavora per il ripristino dei diritti delle donne iraniane. Con l’arrivo della rivoluzione khomeinista ha perso il posto di magistrato, ma non è espatriata e ha scelto di lottare per le riforme come avvocato.
Ma anche Khalida Messaoudi, per anni insegnante di matematica in due licei di Algeri, che vive dal marzo 1993 in semiclandestinità nel suo Paese perché condannata a morte dal movimento islamista.
Dopo ripetute minacce lanciatele pubblicamente dagli altoparlanti delle moschee controllate dal Fis Khalida, sfugge fortunosamente ad un agguato. Nel 1994 subisce un attentato dove rimane ferita ad una gamba.
Tutto questo a causa del suo ruolo di rilievo nel movimento di rivendicazione dei diritti civili per le donne in Algeria. Nel 1985, a pochi mesi dall’adozione del Codice di famiglia – ribattezzato “codice dell’infamia” perché fa delle algerine delle minori a vita – fondò e presiedette la prima associazione indipendente di donne algerine: l’Associazione per l’uguaglianza tra l’uomo e la donna davanti alla legge.

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