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Lipoproteina: l’infarto miocardico ha il suo perché
Rischi maggiori per chi ha nel sangue questa sostanza
L’aumento della lipoproteina(a) nel sangue porta con sé un maggiore rischio di malattia coronarica e di infarto miocardico. La conferma è arrivata da una nuova ricerca, condotta dal Consorzio di ricerca Procardis, che riunisce scienziati di tutta Europa, compresi quelli dell’Istituto Mario Negri, e pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine. Analizzando il codice genetico di 16mila soggetti europei è stato dimostrato che tra le diverse varianti del gene Lpa, due sono associate all’aumento del livello plasmatico di Lp(a).
Una persona su sei
Una novità da non sottovalutare, visto che una persona su sei è portatrice nel proprio Dna di una delle due varianti di questa sostanza endogena. Per loro il pericolo di infarto è doppio rispetto agli altri, mentre è quattro volte più alto per chi ha entrambe le varianti. La lipoproteina(a) si conferma quindi come un fattore di rischio cardiovascolare indipendente da quelli tradizionali quali colesterolo totale, colesterolo Ldl, apolipoproteina B, ipertensione, diabete, obesità e fumo che, uniti alla Lp(a), creano un mix da tenere sotto controllo.I dati dello studio sono stati illustrati a «Conoscere e curare il cuore 2010», il simposio promosso a Firenze dal Centro nazionale per la Lotta contro l’infarto, con il contributo scientifico di Sigma-Tau. Ma, sempre dal convegno, arriva anche una buona notizia: risultati incoraggianti nella riduzione di livelli di lipoproteina(a) si sono ottenuti recentemente con la L-carnitina, una sostanza già presente nel corpo umano e nota per il ruolo chiave svolto nel metabolismo cellulare degli acidi grassi.
Parola agli esperti
Scoperta nel 1963, rimasta per molti anni vero e proprio oggetto misterioso, la lipoproteina(a) ha evidenziato nel tempo proprietà trombogene ed aterogene. «Da tempo si sapeva che la lipoproteina(a) è associata all’infarto ma non era chiaro se ne fosse una causa o una conseguenza», afferma il professore Cesare Sirtori, del dipartimento di Scienze farmacologiche dell’Università degli Studi di Milano, «la novità che emerge adesso è il suo ruolo causale, cioè la responsabilità della lipoproteina(a) nella malattia cardiovascolare».Visto che dieta, esercizio fisico e farmaci tradizionali come le resine, la terapia estrogenica o i fibrati, hanno fornito risultati modesti o nulli, l’attenzione dei ricercatori si è spostata su altre strade: «I risultati preliminari di una serie di studi qualificano la L-carnitina come una nuova opportunità terapeutica per la riduzione dei livelli di Lp(a) in pazienti dislipidemici», aggiunge il professor Mariano Malaguarnera, del dipartimento di Medicina interna dell’Università degli Studi di Catania.
«La carnitina», continua il medico catanese, «si è dimostrata efficace nel ridurre i livelli plasmatici della lipoproteina(a) con ridotti effetti collaterali. La L-carnitina è una molecola di ampia disponibilità, anche a basso costo, e ha un’azione protettiva sulla cellula, un’azione energizzante e un’azione sui lipidi».
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