#MeatOutDay

L’insostenibile impronta di una bistecca sul pianeta

Entro il 2050, secondo l’Onu, il consumo di carne aumenterà del 50%. L’impronta dei prodotti di origine animale sul pianeta già oggi è fino a un quinto delle emissioni di gas serra. Servono soluzioni sostenibili per sfamare una popolazione in crescita, senza aggravare ancora la crisi climatica, il declino di biodiversità e l’inquinamento. Politica e scienza possono aprire nuove strade. Ministro Lollobrigida permettendo

di Elisa Cozzarini

Carne e prodotti di origine animale pesano fino a un quinto delle emissioni globali di gas serra: è quanto afferma un recente studio del Programma dell’Onu per l’Ambiente – Unep, presentato durante la giornata dedicata al cibo della Cop28, la Conferenza sul clima di Dubai. Entro il 2050, si prevede che il consumo di carne crescerà del 50%. Trovare soluzioni sostenibili per nutrire una popolazione in aumento, senza aggravare la crisi climatica e il declino della biodiversità, è una delle principali sfide del nostro tempo.

Secondo la piattaforma di dati scientifici Our World in Data dal 1961 la produzione planetaria di carne è più che quadruplicata, fino a superare, oggi, 350 milioni di tonnellate all’anno. La crescita non è stata la stessa nelle diverse regioni del mondo: in Europa è più o meno raddoppiata, in Nordamerica è circa di due volte e mezzo, mentre in Asia è aumentata di ben quindici volte. Sono ritmi che le risorse limitate del pianeta non possono sostenere.

Il peso degli allevamenti intensivi

Il Wwf Italia sottolinea che in Europa, più dell’80% della carne proviene da allevamenti intensivi. In Italia la percentuale è addirittura dell’85% per i polli e oltre il 95% per i suini, mentre quasi tutte le vacche da latte non hanno accesso al pascolo libero. Le emissioni globali di gas serra degli allevamenti intensivi, ricorda ancora l’associazione ambientalista, sono paragonabili a quelle dell’intero settore dei trasporti, considerando treni, macchine, aerei e camion. Inoltre, gli allevamenti intensivi consumano fino al 10% dell’acqua dolce disponibile sul pianeta e fino al 30% delle terre non coperte dai ghiacci. La domanda di carne è inoltre responsabile della deforestazione del 60% delle foreste pluviali, sacrificate per lasciare spazio ai pascoli e soprattutto per coltivare grandi quantità di vegetali, per lo più soia e cereali, destinati all’alimentazione animale. Senza contare che gli allevamenti intensivi sono tra i sistemi di produzione alimentare più crudeli: gli animali sono costretti a vivere tutta la vita in spazi sovraffollati, con luce artificiale o al buio e nessuna possibilità di mettere in atto comportamenti naturali.

In questi giorni è stato presentato uno studio realizzato da Università Bocconi di Milano, Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici – Cmcc e Legambiente Lombardia, sull’impatto dell’allevamento di bovini e suini sull’inquinamento dell’aria in Pianura padana. La ricerca evidenzia che l’agricoltura, soprattutto per la gestione delle deiezioni zootecniche e l’uso di fertilizzanti, è la principale fonte di emissioni di ammoniaca, responsabile degli alti livelli di particolato che si registrano in Pianura padana. L’allevamento di bovini e suini potrebbe essere responsabile fino al 25% dell’esposizione all’inquinamento locale.

Lo scorso 22 febbraio il Wwf, con Greenpeace Italia, Isde – Medici per l’ambiente, Lipu e Terra! hanno depositato alla Camera la proposta di legge “Oltre gli allevamenti intensivi. Per una transizione agro-ecologica della zootecnia”. Prime co-firmatarie della proposta sono le deputate Michela Vittoria Brambilla (Noi Moderati) e Eleonora Evi (Avs), entrambe dell’intergruppo parlamentare per i diritti degli animali e la tutela dell’ambiente.

La frontiera della carne coltivata

Il Programma dell’Onu per l’Ambiente – Unep individua, come principale strada per ridurre l’impatto sull’ambiente della produzione di cibo di origine animale, lo sviluppo di nuovi prodotti a base vegetale, carne coltivata da cellule animali e cibi ricchi di proteine derivanti da fermentazione. «Questo, oltre ad ampliare la scelta per i consumatori, potrebbe in futuro dare un contributo positivo per affrontare la crisi climatica, il declino della biodiversità e l’inquinamento, riducendo la pressione sui terreni agricoli e le emissioni», dichiara Inger Andersen, direttrice dell’Unep. «Il sostegno da parte della politica e lo sviluppo di una ricerca aperta e trasparente su questi temi possono contribuire a diffondere queste nuove tecnologie». Già ora il valore economico complessivo dei prodotti a base vegetale che sostituiscono la carne è di 5,6 miliardi di dollari all’anno. E richiedono, rispetto alla carne bovina, il 97% di terra in meno e tra il 30 e il 50% in meno di energia, con il 90% in meno di emissioni.

Va in direzione assolutamente contraria l’Italia, con la legge voluta dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, che vieta la carne coltivata e le etichette meat sounding per prodotti vegetali, come l’hamburger vegetale o le polpette di ceci. E che fine farà il salame di cioccolato? La norma potrebbe mettere in crisi un ampio settore agroalimentare, che già ora riempie i carrelli della spesa di moltissimi italiani, senza nessuna conseguenza sulla carne coltivata, che non è in commercio. Intanto l’Ue ha interrotto l’iter di validazione della legge. Per Lollobrigida si tratta di un segnale positivo: «La legge è serenamente in vigore e non c’è nessun rischio di una procedura di infrazione». La Lav, invece, sostiene che la norma non è conforme al diritto europeo e ha chiesto l’apertura di una procedura di infrazione per l’Italia.

Per questo essere vegetariani o vegani o comunque ridurre il consumo di carne, fa bene all’ambiente.

La foto in apertura è di Usman Yousaf da Unsplash.

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