Formazione

L’insegnante non è più quello che pensavamo

L'anno scolastico sta per ripartire mentre gli istitui italiani in molti casi sono un “cantiere aperto”. E al centro di questi cantieri ci sono docenti che si mostrano capaci di innovare e cambiare. Un dinamismo che la Buona Scuola incoraggia e incentiva

di Sara De Carli

«I am a virus. I am a catalyst. My name is innovation»: così dice di sé Graham Brown-Martin, uno dei guru mondiali del “ripensamento radicale dell’istruzione”. Al netto del radicalismo, quanti sono i docenti italiani che oggi si riconoscono in questa definizione? Più di quanti si creda. La scuola sta cambiando: nonostante le resistenze conservatrici, l’obsolescenza di un modello organizzativo identico a sé stesso da un secolo, le perplessità (tante) e la consapevolezza (forte) che ci si è messi in cammino ma la meta è lontana. La scuola sta cambiando non per decreto (un’obiezione sentita tante volte in questi mesi) ma per contaminazione globale, perché è cambiata la società e ancor di più cambierà nei prossimi anni: gli insegnanti lo sanno e non stanno facendo finta di nulla, consci che chiudendo il mondo fuori dalla porta dell’aula chiuderebbero fuori anche il futu- ro dei loro studenti. Prima e più di ambienti, strumenti, organizzazione, il cuore del cambiamento sono loro. Non è un caso che The Economist a metà giugno abbia dedicato la copertina agli insegnanti, sotto il titolo “How to make a good teacher”, candidando i docenti ad essere i protagonisti assoluti di questo momento storico, a patto di sapersi rinnovare.

E in Italia? In Italia da un anno abbiamo una nuova legge, nata con l’ambizione di mettere in moto quel cambiamento che non si poteva più rimandare. Si chiama legge 107/2015, ma tutti la conoscono come “la Buona Scuola”: un titolo che ha polarizzato aspettative messianiche e critiche barricadere. Sta funzionando? Cosa è cambiato? Ecco un viaggio dentro le scuole d’Italia, un “cantiere aperto” in cui la voglia di met- tersi in gioco ancora una volta — e per tanti è l’ennesima — prevale sulla stanchezza, l’immobilismo e l’ostruzionismo che i media blasonati raccontano.

Animatori digitali. L’innovazione

Puglia, Ostuni, liceo scientifico L. Pepe: «Questa mattina la signora della segreteria doveva segnalare un problema, ma non sapeva fare lo screenshot. Bisogna saper comunicare, la vera dote degli animatori è questa». Così racconta Paola Lisimberti, professoressa di italiano e latino e animatore digitale della scuola. Il nome è un po’ buffo, ma finalmente con gli animatori digitali (più di 8mila, uno per ogni scuola) si è dato riconoscimento formale ai virus spontanei dell’innovazione. Insieme a loro lavora il team per l’innovazione digitale, che comprende altri tre docenti: il contagio dipenderà dalle reti che si creeranno sui territori. Un esempio? L’#Hack4Dante che ha visto protagonisti i ragazzi del liceo Pepe: «Avevamo tutta la Divina Commedia in tasca, nella chat di Telegram. I ragazzi hanno fatto un’esperienza diretta di commento a Dante, usando la rete come biblioteca, differenziando le fonti e individuando quelle attendibili. #Hack4Dante è stato possibile perché è nato un team, con competenze professionali diverse, anche esterne alla scuola, che sono un valore aggiunto fondamentale», spiega la professoressa Lisimberti. Lavorare in rete «è “il” cambiamento per eccellenza. Ma ho fiducia: gli insegnanti hanno dimostrato di essere i lavoratori più capaci di cambiare prospettiva. La 107 fa respirare un’aria di futuro, che però resta sulla carta: per il cambiamento “ci vogliono uomini e donne coraggiosi”».

Daniela Di Donato invece insegna lettere alla scuola secondaria di primo grado G. G. Belli di Roma: «Questo anno ci ha molto stimolati in una identità professionale nuova. Il fatto che nel Piano nazionale scuola digitale sia detto a chiare lettere che l’innovazione va abbracciata è una rivoluzione, mi sento più forte, prima eravamo dei carbonari», ride. Fra gli osservatori c’è chi irride l’«eccitamento digitale» in atto, ma sul campo è fortissimo l’aggancio tra tecnologia e pedagogia: «è questione di avere una visione etica della nostra responsabilità nei confronti dei giovani. Questi ragazzi dovranno fare un lavoro per cui non hanno studiato e ciononostante in pochi giorni dovranno diventare competenti: dobbiamo scardinarci dalle conoscenze e puntare sulle strategie di apprendimento, diverse per ciascuno. Cosa siamo? Forse coach».

A volte da fuori le cose diventano più chiare. Pietro Paganini, professore alla John Cabot University di Roma e coautore di Allenarsi per il Futuro, va dritto al punto: «Dobbiamo immettere nella società persone capaci di affrontare i problemi, creando soluzioni, servizi, prodotti. Le tre parole chiave del futuro sono curiosità, creatività e intraprendenza. La società sta andando lì, i ragazzi pure, la scuola? I soldatini delle multiple choice non hanno più senso, all’esecuzione ormai ci pensano le macchine. Il mondo chiede “fammi vedere cosa sai fare”, non “che voto hai preso”. Un salto ontologico così, nella scuola ancora non c’è».

Card per l’aggiornamento. La formazione

Tutti i docenti di ruolo, dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado, hanno ricevuto quest’anno un bonus da 500 euro per il loro aggiornamento professionale. «Quanto durerà? Non sarebbe stato meglio adeguare lo stipendio?», si sono chiesti in molti. È un’azione concreta che fa parte di una riscommessa più grande sulla centralità della formazione. La legge 107 infatti afferma che «la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale» e in arrivo c’è un “Piano nazionale di formazione”. Insomma, buon insegnante non si nasce: si impara, ci si diventa e si può (sempre) migliorare.

«I 500 euro sono stati spesi prevalentemente per strumentazione hardware, pc e tablet. Qualche problema c’è: io ad esempio uso i microcontrollori in classe a fini didattici, ma non sono rendicontabili con la card», racconta Domenico Aprile, docente di informatica al liceo scientifico V. Lilla di Oria (BR), che come animatore digitale l’anno prossimo proporrà «di versare 100 euro a testa per organizzare un aggiornamento professionale con esperti di chiara fama. Probabilmente incontrerò delle resistenze…». Qualcuno in realtà l’ha già fatto, come l’istituto comprensivo di Castiglione d’Adda (LO): un corso per l’inglese e uno per l’educazione musicale, pagati con la card del docente. Lo racconta Marco Bianchi, segretario Cisl Scuola dell’Asse del Po: «Con la trovata dei 500 euro si è persa un’occasione: in un collegio docenti di cento

persone, sono 50mila euro. Quando una scuola ha visto 50mila euro per la formazione? Mettiamoci insieme e decidiamo qual è l’azione formativa che ci serve come collegio, per migliorare questa scuola e questi insegnanti. Qualcuno l’ha colto, molti hanno rinunciato solo perché la rendicontazione diventa problematica. La domanda però è “siamo un collegio docenti o siamo cento individualità”? Pensiamo anche alla valorizzazione dei docenti: si fa emergere una punta, ma a scuola non si va avanti da soli. Una volta premiato il singolo, la ricaduta sul contesto qual è?».

Valorizzazione e valutazione. La fine di un tabù

La valorizzazione dei docenti è uno dei nodi più criticati della Buona Scuola e insieme la sua novità più radicale. Il ministero ha stanziato 200 milioni di euro, in media 23mila euro lordi a scuola, per “premiare” gli insegnanti migliori, nell’ottica di valorizzare il loro lavoro. Per la prima volta cioè si ammette esplicitamente che gli insegnanti non sono tutti uguali. «La gran parte degli insegnanti non ha nulla in contrario sulla valutazione, si tratta però di capire chi valuta e con che obiettivi. Mi sembra sia prevalso l’effetto mediatico, ma nella scuola non abbiamo bisogno di gare quanto di collaborazione», afferma Giovanni Accardo, insegnante di lettere al liceo G. Pascoli di Bolzano e autore di Un’altra scuola.

A metà giugno un monitoraggio di Cisl Scuola ha messo in fila i primi dati: né guerriglia né Aventino, nonostante il bonus piaccia appena al 10,8% dei docenti. I comitati di valutazione si sono insediati, i criteri di valutazione nel 77% dei casi sono stati deliberati all’unanimità e per l’80% dei casi si tratta di criteri oggettivi e documentabili. Durante l’estate i dirigenti, in base ai criteri stabiliti dal comitato di valutazione, decideranno chi sono i docenti da premiare. Quanti? Con quanto? Non sta scritto da nessuna parte, bisogna attendere: presumibilmente un 20%, con una cifra che potrebbe avvicinarsi a un mese di stipendio in più. «Immagino il 20-30% del personale, un range un po’ alto ma serviva a dare serenità. In media saranno mille euro a docente, ma differenzierò la somma», afferma Alessandra Rucci, dirigente dell’IIS Savoia-Benincasa di Ancona. Quanto ai criteri «abbiamo pensato che il docente da premiare dovesse essere una figura completa, con un aggancio stretto al nostro piano di miglioramento». Lorenzo Caputo, dirigente all’ITCS di Bollate parla di molti “mal di pancia”, nonostante la scelta di premiare il 50-60% dei docenti (avranno circa 400 euro a testa), mentre al liceo Belfiore di Mantova la negatività del primo collegio docenti dell’anno scorso si è sciolta: «Il 90% degli insegnanti ha consegnato la scheda di autovalutazione, tanti l’hanno presa come occasione per guardare con chiarezza al proprio lavoro», racconta la dirigente Marina Bordonali. Antonio Fini, dirigente dell’Istituto Comprensivo di Arcola-Ameglia, provincia di La Spezia, non nasconde la sua preoccupazione: «C’è il rischio che si spacchi il collegio, mentre a scuola abbiamo bisogno di fare squadra. Sarebbe stato preferibile un altro sistema, magari una vera carriera con figure differenziate». Le idee però ce le ha chiare: «Non basta essere competenti nella propria materia: l’insegnante del futuro — e già del presente — è anche collaborativo, in grado di lavorare con gli altri, con capacità organizzative. La scuola non è solo stare in classe, ma aprirsi al mondo, a progetti ed attività esterne».

Ma il buon insegnante chi è?

Beghe sindacali? Non proprio. Il risvolto più interessante della faccenda, quello che dovrebbe arrivare dritto alle famiglie, è che dovendo mettere nero su bianco dei criteri per attribuire il bonus, le scuole si sono interrogate seriamente su chi sia oggi il bravo insegnante. «La partita più interessante non è la “pseudo-quattordicesima” ma il fatto che il collegio docenti si sia riconosciuto in un elenco di indicatori che definiscono chi è in questo preciso istituto l’ottimo insegnante», afferma Laura Ferretti, dirigente dell’IS L. Lotto di Trescore Balneario, Bergamo. È l’effetto traino: «Se viene indicato un profilo, tutti tendono ad esso. La scuola ha un piano di miglioramento condiviso, che dice quali elementi della professionalità docente pesano di più: per noi sono l’utilizzo della didattica non frontale, l’elaborazione di contenuti disciplinari radicati nella realtà, la capacità di lavorare in équipe…». Elementare: se non sai dove intervenire né in che direzione andare, se non hai indicazioni né riscontri, parlare di miglioramento è un flatus voci.

Fin qui le esperienze, che però al momento sono tutto ciò che abbiamo. Perché un vero monitoraggio, spiega Mariella Spinosi, ex ispettrice che sul tema sta seguendo diverse reti di scuole, ancora non c’è. E perché «abbiamo un comitato di valutazione che in realtà non valuta, stabilisce i criteri, che però non sono per la va- lutazione ma per la valorizzazione. Valorizzazione di che? Delle best practice o delle persone? Quest’anno si è puntato sulle imprese didattiche collegate al piano di miglioramento della scuola, con uno stile partecipativo, ma il passaggio da introdurre resta quello sulla valutazione». Massimo Faggioli, dirigente di Indire, da settembre setaccerà le esperienze realizzate, alla ricerca di buone pratiche. L’obiettivo è arrivare in tre anni a delle linee guida nazionali: «Il bonus oggi non è legato ai risultati ma a un criterio reputazionale, in termini di valutazione si è mosso ancora poco», ammette. «Il seme gettato è l’idea che la professione dell’insegnante non sia una vocazione. Il buon insegnate non è il genio isolato ma quello che contribuisce alla crescita della scuola come organizzazione sociale, come comunità. Siamo a un bivio. Non è una competizione per fare classifiche, è una valutazione formativa che vuole spingere tutti a crescere. E la crescita di tutti porta all’equità».

Un oblò nella porta

Nel 2015 sono stati assunti 90mila docenti e ogni scuola ha avuto quasi 7 docenti in più per ampliare l’offerta formativa, su progetti specifici, scelti dalle scuole: è l’organico del potenziamento, foriero di tante aspettative e tante delusioni. Nella realtà in- fatti c’è stata poca corrispondenza fra le attese delle scuole e i profili dei docenti arrivati: rubando la metafora a una prof, è come se un pasticcere volesse preparare una sacher e si vedesse consegnare gli ingredienti per una charlotte alle fragole. Il piano triennale dell’offerta formativa resta senza gambe. Va bene un anno, ma se succede di nuovo (e pare succederà) diventa un problema. Tanti in verità sono già contenti: al liceo linguistico Ninni Cassarà di Palermo — una scuola che negli ultimi anni ha saputo ripensarsi radicalmente, in un processo che ha per simbolo la riapertura del “Bar del Cassarà”, con un’associazione culturale fondata dagli studenti che ha trasforma- to un luogo di incuria in un polo di aggregazione, aperto al territorio — la dirigente Daniela Crimi ha attivato un progetto di italiano come L2 per gli alunni stranieri e fatto storia dell’arte in inglese, con il Clil. Cinese e arabo però, su cui lei puntava, non sono arrivati. Al liceo Belfiore di Mantova la dirigente è ancora incredula: «da gennaio a giugno non ho mai congedato una classe perché non avevo il supplente. Mai successo in 23 anni». A Trescore Balneario hanno tenuto aperta la scuola due pomeriggi a settimana, con 150 ragazzi, per studio assistito e corsi di recupero. Il risultato? Il 22% in meno di rimandati a settembre.

Fra neoassunti e organico del potenziamento è successo però che molti docenti quest’anno hanno potuto osservarsi a vicenda, in azione, traendone reciproco beneficio. Una rarità, se è vero che il 40% degli insegnanti dei Paesi Ocse non ha mai affianca- to né osservato un collega all’opera e non ha mai ricevuto feedback sul proprio lavoro. A Como, alla scuola Oliver Twist di Cometa Formazione, 400 alunni e 100 insegnanti, da settembre questa “osservazione” andrà a sistema: docenti e tutor potranno entrare in classe e osservare un collega all’opera. «È un’idea nata dall’esperienza, qui le aule hanno tutte un oblò nella porta. Passando, vedevo che la collega di italiano usa- va il cooperative learning: una mattina sono entrato, ho imparato molto», racconta Giuseppe Sinatra, docente di matematica e fisica. Per la formazione estiva hanno chiamato una docente da Whashington, a turno un professore fa lezione davanti ai colleghi, poi si siede e ascolta: «Descriviamo ciò che è successo e cosa si è attivato in noi», racconta Giovanni Figini, docente di italiano e coordinatore dei corsi. «All’inizio c’era imbarazzo, tendevamo a dire “io avrei fatto così”, adesso siamo passati al fare domande. Questo è potentissimo: la domanda ti riattiva, ti costringe a interrogarti sulla tua pratica didattica».

La stessa sinergia tra docenti è il presupposto anche delle novità in arrivo per gli insegnanti di sostegno, figura che verrà ridisegnata dalla delega sull’inclusione, ormai pronta: «L’insegnante di sostegno sarà innanzitutto un insegnante, con un’unica formazione per tutti. Chi vorrà dedicarsi al sostegno dovrà aggiungere una formazione specifica, con una specializzazione su singole disabilità, perché la disabilità non è un monolite. Nel corso degli anni, proprio perché è prima di tutto un insegnante, il docente potrà optare per la cattedra curricolare», sintetizza il sottosegretario Davide Faraone. Per le famiglie significa «maggior continuità didattica, maggiore qualità e una sburocratizzazione delle procedure, con un unico punto d’accesso, evitando il calvario tra scuola, Asl, Inps», rivela.

I francescani dell’alternanza
L’ultima parola-chiave di questo viaggio nella scuola che cambia è “comunità”. Perché la scuola non è solo una comunità educante ma anche una realtà che si inserisce nel contesto di un territorio, non avulsa e isolata da esso. Sempre più spesso si parla di “scuole aperte”. «L’organico potenziato sarà la cartina di tornasole da cui si vedrà se ogni scuola è pronta davvero ad aprirsi al territorio. Dipende solo dalla scuola, non da altri, ognuno potrà usare l’autonomia per proporre centinaia di ore di corsi di recupero o per percorsi diversi», afferma Aluisi Tosolini, dirigente del liceo A. Bertolucci di Parma. Una fortissima accelerazione l’ha data l’introduzione dell’alternanza scuola lavoro in tutte le scuole superiori, licei compresi. «Mezzo anno su tre lo studente lo passa in alternanza, questo deve lasciare il segno. Cambia la valutazione, che finalmente sarà sulle competenze, e cambia il modo in cui l’insegnante fa l’insegnante: centrato sullo studente». A Udine, all’ISIS A. Malignani, l’alternanza si fa dal 1994 ma con la Buona Scuola passeranno da 600 a 1.500 ragazzi coinvolti ogni anno: «Dietro c’è un lavoro enorme, la qualità dei percorsi è data tutta dalla qualità delle relazioni con le imprese. Cambia la figura del docente? Certo, ma soprattutto quella dello studente, che non è più passivo», racconta il dirigente Andrea Carletti.

Luglio 2016. Davanti al mare di Gioia Tauro (RC), all’IIS Severi-Guerrisi, il dirigente Giuseppe Gelardi conta i progetti di alternanza scuola lavoro: 500 ragazzi in 250 microaziende, a dispetto delle difficoltà economiche e imprenditoriali del territorio. Lo fanno già da tre anni, due giorni a settimana, 300 ore in un solo anno. «Qualche ragazzo è stato anche assunto», gioisce il dirigente. Come si fa? «Bussando porta a porta, non è una cosa che gestisci al telefono, abbiamo fatto i francescani dell’alternanza». Quando ha visto il suo organico del potenziamento, il dirigente ha avuto un’idea: «Mi hanno assegnato un docente di diritto, che non avevo chiesto, però era la stessa cattedra del docente che da tre anni seguiva l’alternanza… Ho mandato in classe il professore arrivato con il potenziamento e l’altro ha seguito a tempo pieno l’alternanza. Lei però deve venire qui, perché non si può immaginare cosa significa. Cinque anni fa questa scuola aveva 350 iscritti, ora ne ha 1.500…». Ha ragione lui. La scuola italiana è viva e sorprendente, ma bisogna entrarci. Scoprirete che è già molto diversa da quel che pensate di sapere.

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