Quello che avete appena letto qua sopra potrebbe essere il titolo dell’ultimo libro di Riccardo Luna. Ma quello vero è: “cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori”. Perché chi vuole coltivare l’innovazione non aspetta, lo fa così come lo hanno fatto altri in epoche in cui la speranza di cambiare era ancora più flebile di oggi.
E lo fa Luna con un flusso di parole dosate una ad una che parlano di idee e fatti complicati in modo non solo accessibile, ma anche startupizzante per usare una battuta del Crozza-Maroni. È difficile rimanere fermi dopo aver letto questo libro: il primo istinto è quello di rileggere il mondo che si muove intorno con nuove lenti e correggendo le miopie.
Potrebbe essere proprio tua nonna, o tua madre, ad aver risposto in televisione a quel giornalista che le chiedeva, come cittadina qualunque, cosa significasse “innovazione”: “è quando inventano qualcosa di nuovo che cambia in meglio la vita delle persone”. Non manca nulla a questa frase che riassume un concetto eterno nella storia dell’umanità. Chissà se Luna ci allieterà i neuroni un giorno con un libro di taglio storico: come avvennero tutte le piccole innovazioni dal pleistocene ad oggi che hanno reso migliore la vita delle persone.
Un concetto, così come spiegato proprio da tua nonna/madre in televisione, che oggi sembra rivoluzionario. Tutto sta nel soggetto: chi è che inventa? L’inventore si chiama startupper. È uno che non ha paura di sbagliare, perché l’errore è il carburante dell’innovazione. È uno che studia, perché la meritocrazia è innata nel mondo digitale e dell’innovazione. Vince chi è più bravo. Ed è uno che non chiede permesso né si dispera: spesso gente della mia generazione di trentenni non li comprende e li chiama smanettoni o nerd.
Wikipedia ci racconta che un nerd è uno che ha una certa predisposizione per la ricerca intellettuale, ed è al contempo tendenzialmente solitario e con una più o meno ridotta propensione alla socializzazione. Invece no: lo startupper, l’innovatore seriale, è uno che lavora in rete, insieme ad altri, aiuta e si fa aiutare nel risolvere i propri e gli altrui problemi. Perché gli “altrui” sono anche i suoi e, in definitiva, quelli di tutti. E non ambisce a diventare ricco perché godersi la vita non è quasi mai il suo unico obiettivo, dal garage si apre al mondo, pur restando spesso nel garage.
Luna sgombra bene il campo da un possibile fraintendimento: una startup non è una partita Iva “qualunque” -con tutto il rispetto. È il modo di guardare al mondo che ha chi lo vuole conquistare con un’idea, in qualche caso per farne un posto migliore.
Regola d’oro: arrivare al momento giusto con un prodotto migliore. L’esempio più clamoroso è Facebook. Questo porta ad una svolta culturale: il lavoro dobbiamo crearcelo non trovarcelo, prima realizziamo e prima ci salviamo. Chi ha squarciato il grigio velo dell’Italia al declino sono i cosiddetti makers: il futuro sono aziende piccole di innovatori locali che superano qualsiasi barriera, che uniscono la cultura digitale con la produzione di oggetti fisici veri. Anche nel terzo settore ce ne sono molti.
La nostra repubblica dei lamenti è piena di nomi e storie di successo poco noti: Massimo Banzi, Enrico Dini, Lorenzo e Luciano Cantini e altri ancora. E di innovatori sociali preziosi come l’acqua limpida in un Paese che scricchiola ed è sempre meno capace, nelle inadeguate politiche di welfare, di creare reti di protezione efficaci. Gli innovatori sociali vogliono fortissimamente risolvere problemi molto pratici per migliorare la vita degli altri. Gli innovatori sociali sono tutti volontari, nel senso che hanno scelto questa vita, rinunciando spesso a stipendi migliori che il talento gli potrebbe procurare, perché credono che il bene collettivo farà bene anche a loro stessi. E, sottolinea Luna, non vale il viceversa perché i volontari, preziosi sempre, spesso non sono innovatori perché rispondono ai problemi senza fare in modo che poi non si ricreino. Ma questo è un altro problema ancora che L’involontario, il blog di chi scrive, ha ben presente.
L’innovazione non è solo un fatto privato o economico: ci sono ambiti, Luna ne approfondisce tre, in cui la rete, la cultura digitale e l’innovazione possono arrivare a provocare vere e proprie rivoluzioni: la politica intesa come partecipazione -dentro e fuori dai palazzi-, la scienza e il mondo dell’istruzione. Con tutti i rischi che grandi innovazioni nel midollo osseo del mondo potranno portare all’organismo del Pianeta.
Tutto è un rischio e tutto è un’opportunità, a patto di vederla come tale. Intanto tempo e risorse passano e in Italia ancora non si è fatto abbastanza per rendere le scuole un avamposto digitale e quando la burocrazia ha preso in mano l’agenda dell’innovazione lo ha fatto quasi sempre in modo goffo. Ma andiamo avanti.
“Studiare, impegnarsi, provarci -scrive Luna- è l’unica cosa che serve. Anche qui in Italia, nonostante certa Italia. L’unica cosa che serve. L’unica speranza vera. Il mondo è più grande dello spettacolo claustrofobico che ci circonda. E la scuola è il luogo da dove partire per costruire un paese migliore”.
E i giovani di ogni età, come ricorda Luna nell’epilogo del libro, hanno accesso oggi ad una quantità di informazioni inimmaginabili fino ad appena un decennio fa. Si parla spesso di giovani italiani come la generazione perduta o la “Neet”. Ma, questa è anche la generazione C, dove C sta per Connessa. Sorpresa: i giovani sono troppo pochi in Italia, per questo dobbiamo avere fame di immigrati e il libro racconta anche, per la prima volta, come gli immigrati possano essere non solo importanti per la demografia e per l’economia, ma anche per l’innovazione.
Cambiare questo Paese non è impossibile e l’unica vera strada è fare squadra, creare reti di innovatori e portare avanti dei progetti. Stato e mercato non risolveranno da soli le cose, serve iniziare a farlo ovunque. Senza chiedere il permesso.
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