Molte innovazioni hanno il loro mito fondativo. Nel caso dell’impresa sociale si tratta di un cavallo. Ben diverso da quello di Troia, quasi l’opposto: quest’ultimo entrava dentro le mura cittadine con in pancia guerrieri pronti a distruggere. Quello dell’impresa sociale, invece, in pancia aveva messaggi di libertà e i muri li sfondava per uscire. Esattamente quarant’anni fa – davvero un bell’anniversario da ricordare – si realizzava l’epopea di Marco Cavallo. Una performance artistica avvenuta nel manicomio di Trieste grazie a un gruppo di artisti che coinvolgendo le persone recluse hanno costruito un cavallo che poi hanno portato in giro per la città, quasi in processione.
Il mito è stato giustamente rinverdito dalla rivista online Doppiozero che ha ripubblicato un bell’editoriale di Umberto Eco apparso sul Corriere della Sera dell’epoca. Una lettura utile e tutt’altro che fine a se stessa. Marco Cavallo ha ancora molte cose da dire, in particolare sul tema tanto di moda dell’innovazione in campo sociale.
In primo luogo l’innovazione, quella radicale, non è solo generativa ma distruttiva. Con l’uscita del cavallo dal manicomio finiva un modello di servizio e ne iniziava un altro incarnato da una nuova forma organizzativa e d’impresa. Il passaggio non è stato indolore – si pensi cosa ha significato chiudere in tempi relativamente rapidi strutture come quelle manicomiali, anche solo in termini economici e occupazionali – e infatti c’è stato bisogno di un’azione a forte valenza simbolica e di rottura. Una produzione artistica che fa da medium per il cambiamento. Uno strumento che ancora viene usato da organizzazioni nonprofit e imprese sociali per segnare le discontibuità e i cambi di paradigma, come nel caso dei processi di riuso dei beni confiscati.
In secondo luogo Marco Cavallo apre la porta a un processo di costruzione di nuove istituzioni. Da lì sono nate decine di migliaia di imprese impegnate, nei più svariati settori di attività, a produrre beni di interesse collettivo. Lo hanno fatto soprattutto costruendo relazioni di mercato con l’istituzione che tradizionalmente persegue le stesse finalità: l’ente pubblico (locale). Un percorso ambivalente e che oggi richiede di essere rigenerato, non solo perché c’è la crisi, ma anche perché i modelli di servizio non sono più al passo con i tempi, o meglio con i bisogni espressi dalle persone e dalle comunità.
Bisognerebbe riportare in giro Marco Cavallo (cosa che già avviene peraltro) per capire come si può avviare un nuovo ciclo di innovazione nell’impresa sociale, seguendo almeno tre strade.
– Ricostruire i contesti: l’innovazione, soprattutto sociale ma anche tecnologica, è positivamente influenzata dalla prossimità di soggetti che co-operano assumendosi il rischio di innovare.
– Cercare l’innovazione dormiente nelle frange delle organizzazioni istituzionalizzati, investendo risorse per farla crescere e generare cambiamento dall’interno.
– Promuovere (o partecipare) nuove forme d’impresa che si fanno carico di innovare in profondità prodotti e processi.
Per fare questo, oltre al cavallo, bisogna munirsi di un setaccio per drenare organizzazioni e contesti. Un setaccio, per essere efficace, ha bisogno di una maglia composta da una parte dall’innovazione che si va cercando (incrementale o totale?) e dall’altra da alcuni focus che riguardano i processi innovativi: il modo in cui si leggono i fenomeni socio economici su cui si vuole intervenire, la disponibilità a mattere mano al design dei beni e dei servizi e infine ai sistemi adottati per misurare l’impatto. Un lavoraccio, come i cercatori d’oro con l’acqua fino alle ginocchia e l’obiettivo di scovare anche solo una pagliuzza.
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