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L’ingegnere italiano che monta i ponti nei luoghi dimenticati del Pianeta
Nicola Puccinelli, originario di Lucca, partecipa ai progetti dell'organizzazione non governativa Bridges to prosperity (B2P) che chiede ad alcune società di ingegneria private di sponsorizzare i progetti di costruzione di ponti. «La speranza è che, sul lungo termine, le persone che abitano questi territori riescano a fare le stesse opere senza aiuti esterni»
di Giulio Sensi
I contadini che vivono intorno alla località ruandese di Kucyaruseke impiegano molte ore di cammino per arrivare al primo mercato locale in cui poter vendere i loro prodotti. Ponti e passaggi di fortuna sono una corsa ad ostacoli e nella stagione delle piogge spesso diventa impossibile poter attraversare i corsi d'acqua della zona e il fiume Akanyaru. In quei posti dimenticati, fra i più poveri del Pianeta, qualche settimana fa è approdata una squadra di ingegneri che lavorano su progetti internazionali.
La loro missione, condivisa con gli abitanti, era quella di iniziare a costruire un ponte che potesse accorciare di sei chilometri la via per il mercato. Il progetto è della Ong americana Bridges to prosperity (B2P), la quale chiede ad alcune società di ingegneria private di sponsorizzare i progetti di costruzione di ponti. Mandano, quando possibile, il loro staff per montarli e diffondono le immagini e i video dell'impresa. Quello che non arriva dalle sponsorizzazioni viene raccolto con donazioni private.
Il ponte di Munini in Rwanda pronto per l'inaugurazione
Nella squadra di ingegneri c'era anche Nicola Puccinelli, originario di Lucca, che lavora a Hong Kong per la società Freyssinet. Insieme ad un'altra società di ingegneria, Cowi UK, Freyssinet aveva in carico questa missione speciale.
«Eravamo», racconta Puccinelli, «una bella squadra: oltre a me e un altro italiano che lavora in Inghilterra, una ragazza dello Zimbabwe cresciuta Londra, un ucraino, un polacco che vive in Francia, uno spagnolo e anche un ragazzo con papà keniota e mamma irlandese, cresciuto a Nairobi e tornato in Inghilterra per fare l'Università e lavorare».
Questa squadra mista si è presentata in Ruanda con un obiettivo chiaro e concreto: costruire un ponte di 80 metri al servizio delle 3000 persone che vivono di agricoltura. «Ci siamo trovati a Kigali – racconta ancora Nicola -, e poi in macchina siamo scesi fino a Munini, 7 ore di auto nel sud ovest de Rwanda, di cui una e mezzo di strada sterrata». Nicola non è nuovo a esperienze di solidarietà internazionale: per molti anni volontario della Ong Mani Tese, aveva partecipato alle missioni in Messico della sua organizzazione.
Nicola Puccinelli a lavoro con gli operai
«L’accoglienza», racconta, «è stata fantastica: forse perché non sono molto abituati a vedere stranieri, ma dovunque andavamo c’era sempre una folla di persone interessata a vedere cosa facciamo, soprattutto i bambini».
«Le persone là vivono di agricoltura e allevamento. Ogni famiglia nei villaggi ha in media dai 6 agli 8 figli. Vanno a scuola metà giornata e aiutano i genitori nell’altra metà. Stiamo parlando di bambini di 6-10 anni. Molti non hanno nemmeno le scarpe. Non mangiano più di una volta al giorno».
Papà di una bambina di un anno e mezzo, Nicola è rimasto colpito dall'impatto con la povertà estrema: «se penso alle preoccupazioni e attenzioni che diamo ai nostri figli nel mondo occidentale…, ma i ruandesi non si lamentano, sono tutti sempre felici e sorridenti».
Il ponte è stato montato ed inaugurato: 5 cavi di acciaio tensionati e ancorati alle estremità con sopra appoggiati uno strato di travi di acciaio e uno di legno, con rete sui due lati per proteggere dalla caduta.
Un lavoro duro: i tecnici hanno vissuto insieme alla comunità, svegliandosi la mattina alle 5.45. Una rapida colazione e via in cantiere fino alle 12 e di nuovo dalle 13 alle 16.30. «La cosa bella», racconta ancora il volontario italiano, «è che siamo riusciti a interagire molto più di quanto pensavamo con gli operai del posto, sia per gli standard di sicurezza richiesta sia per capire come svolgere le varie fasi del progetto. La speranza è che nel lungo termine riescano a svolgere lo stesso lavoro senza nessun aiuto esterno».
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