Medio Oriente

L’infermiera italiana: «A Gaza ho visto bruciare anche l’umanità»

Martina Marchiò ha 32 anni e lavora con Medici Senza Frontiere. Durante i mesi della sua missione nella Striscia di Gaza ha tenuto un diario, poi diventato un libro. «Gaza è stata una missione estrema», racconta. «In alcuni momenti l’ospedale letteralmente esplodeva di corpi, vivi e morti insieme. I bambini arrivavano senza braccia e senza gambe. Le persone nella Striscia di Gaza non parlano più di futuro: né gli adulti né i bambini. Una bambina di nove anni ha detto: “Io non voglio più andare avanti così, voglio solo morire e raggiungere la mia mamma e il mio papà”. Se lo dice una bambina di nove anni abbiamo perso tutti, no?»

di Anna Spena

«Vado a Gaza. Lo ripeto a bassa voce mentre lo sguardo si perde verso il fiume che scorre e le dita tamburellano sulla piccola tazza in porcellana piena di caffè bollente. Ho terminato poco fa l’ultima chiamata pre-partenza e nella mia mente è ormai chiaro che ci andrò», scrive così Martina Marchiò infermiera di 32 anni, nel suo libro “Brucia anche l’umanità – Diario di un’infermiera a Gaza” (Infinito Edizioni, 104 pagine). «Quando è scoppiato il conflitto lo scorso ottobre mi trovavo in Brasile, nella foresta Amazzonica, per una missione. E ricordo di aver pensato di essere nel posto sbagliato. Non dormii per giorni, piansi e mi sentii terribilmente impotente e fragile. Una volta tornata in Italia, mi ero detta che mi sarei fermata per sei mesi, poi ecco arrivare la missione a Gaza. Qualcosa di voluto, sentito e creduto sin dall’inizio». Martina Marchiò lavora con l’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere dal 2017, e nella Striscia di Gaza è stata coordinatrice medica per l’organizzazione. 

Quando e come è iniziato il lavoro nel mondo della cooperazione internazionale?

Sono laureata in scienze infermieristiche, dopo la laurea sono partita come volontaria per il Kenya insieme ad un’associazione. Mi si è aperto un mondo. La mia prima vera missione con Msf è stata nella Repubblica Democratica del Congo, dove mi trovo anche adesso, dopo la missione nella Striscia di Gaza, è la terza volta che lavoro in questo Paese. Ma ho lavorato nella foresta amazzonica in Brasile, sono stata due volte in Etiopia e in Mozambico, e poi Nigeria, Sudan, Bangladesh, Grecia. Le missioni sono state così tante che che non le ricordo tutte. 

Lo scorso 7 ottobre eri in Brasile 

Sì. Ma continuavo a pensare che sarei voluta essere a Gaza, volevo fare la mia parte. Al rientro in Italia comincio a parlare di questa possibilità con i miei genitori e con alcuni amici. Come ho scritto nel libro: “Le reazioni sono tra le più disparate: in fondo l’essere umano è pieno di sfaccettature. Il denominatore comune è la preoccupazione e due parole che risuonano incessantemente – «Sei sicura?» – la mia risposta resta sempre la stessa: «Lo sono. Gaza è dove sento di dover essere in questo momento». Sono partita per la Striscia di Gaza ad aprile e sono ritornata in Italia alla fine di maggio.

Nel libro hai scritto: “Se mi fermo anche solo per un istante, mi scendono le lacrime: forse è per questo che cerco di avere giorni pieni, per fuggire dai mostri che vengono a trovarmi ogni sera quando mi sdraio nel letto”

Gaza è stata una missione estrema, la più estrema nei miei otto anni di lavoro nel mondo della cooperazione. Avevo già lavorato in altre aree di conflitto, ma mai così. E “mai così” significa che la Striscia di Gaza è un luogo dove non ci sono più regole, non c’è più un solo posto sicuro. È difficile vivere tra le bombe che cadono dal cielo costantemente, è difficile vivere sempre monitorati dai droni con il loro ronzio nella testa. Le bombe cadevano a meno di 300 metri dall’ospedale, ma l’impatto sull’aria lo sentivi comunque, le pareti tremavano, il suono delle bombe ti entrava nelle orecchie. Erano  momenti di paura, per la tua vita e per le persone che erano lì con te. 

Cosa si prova in quei momenti?

Impotenza. È un posto dove non c’è mai pace, il confine è chiuso. In ospedale entrano feriti ad ogni ora del giorno e della notte. In alcuni momenti l’ospedale letteralmente esplodeva di corpi, vivi e morti insieme. A terra, uno accanto all’altro, con il sangue dappertutto, con l’odore del sangue che non se ne va. E davanti a questo orrore c’era  comunque la consapevolezza che per le persone non c’è via d’uscita. È una prigione a cielo aperto.

Il titolo del libro è “Brucia anche l’umanità”

C’è stata una notte a Rafah in cui un campo per sfollati che era stato designato come “zona sicura” è stato pesantemente bombardato dall’esercito israeliano. Le tende e le persone hanno iniziato a prendere fuoco. Chi sopravviveva arrivava al nostro centro per traumi, ora quel centro non esiste più perché la zona in cui si trovava è stata rasa al suolo. I colleghi che erano sul posto hanno iniziato a chiamarci e alla mattina sono arrivati i feriti. Alcuni di noi provavano a segnalare ad Israele la nostra presenza, non volevamo che il nostro centro diventasse un target, un bersaglio. Quando sono arrivata sul posto sono entrata in una sala adibita ad obitorio, con le persone nei sacchi bianchi che ancora non erano state identificate. In alcuni sacchi i corpi erano completamente neri, in altri potevo vedere il profilo di un braccio o di una gamba. C’era odore di carne bruciata e il sangue attorno ai sacchi, e poi le mosche che si posavano sul sangue. Allora lì ho pensato: “Certo che brucia tutto, brucia anche l’umanità”. Perciò quel pensiero è diventato il titolo del diario. E continuavo a pensare: “Davvero brucia tutto, davvero non ci sono regole, davvero più nulla ha valore e l’umanità intera viene rasa al suolo”.

C’è stato un momento in cui hai pensato “non ce la faccio”?

Più di uno, e poi mi sono sentita in colpa. Vedevo i miei colleghi palestinese che da mesi – ormai dieci – sono rimasti lì a fare tutto il possibile. Li vedevo stanchi, senza più speranza, senza più poter pensare al futuro in maniera positiva, eppure resistevano. E allora mi dicevo: “se possono loro, posso anch’io. Devo andare avanti”.

Il ricordo più brutto?

Tanti, purtroppo. Ma la cosa che più mi porto dietro sono i bambini che arrivavano senza braccia e senza gambe: almeno dieci al giorno, tutti i giorni. Sono un numero enorme. Rimanere disabili è una cosa terribile in generale, ma soprattutto oggi a Gaza essere disabile è impossibile perché non ci sono più le strade, non c ‘è più acqua potabile, non ci sono più servizi igienici, quasi non ci sono più ospedali o ambulatori.

Una zona umanitaria vera esiste? 

È fittizia. Dovrebbe essere la zona verso la costa, ma anche lì ci sono bombardamenti o le cannonate dal mare rivolte alla costa. E quindi bisogna lavorare avendo sempre più piani e provare a non perdere le cliniche, il materiale medico. Bisogna lavorare per salvare i pazienti. 

Com’è stato andare via?

Difficile. Il valico di Rafah era ormai chiuso. Quindi sono passata dal valico israeliano di Kerem Shalom, per arrivarci bisogna attraversare una zona molto calda del conflitto. Passata dall’altra parte ho guardato il cielo e i prati verdi e mi sono detta “è questa la libertà”. E dall’altro lato continuavano le esplosioni sopra la testa delle persone. Mi è sembrato di passare da un mondo distopico a un mondo sconosciuto. E ci si sente privilegiati e in colpa. E preoccupati per i colleghi che sono rimasti dentro. Non credo di poter dire di stare bene, da lì si torna con un trauma e la sensazione di impotenza per tutto quello che sta succedendo.

Come stanno loro?

Le persone nella Striscia di Gaza non ce la fanno più, non parlano più di futuro: né gli adulti né i bambini. Durante un colloquio psicologico una bambina di nove anni ha detto: “Io non voglio più andare avanti così, voglio solo morire e raggiungere la mia mamma e il mio papà”. Se lo dice una bambina di nove anni abbiamo perso tutti, no? Come lei tanti altri, non c’è nessuna speranza nel futuro, anzi proprio il futuro non si vede. Si vive solo alla giornata. Ripeto: non c’è praticamente più acqua potabile, non c’è praticamente più cibo, non ci sono più le strade, non ci sono più edifici, non ci sono più le scuole, che sono state bersagliate continuamente, non ci sono gli ospedali, le cliniche vengono evacuate o diventano bersagli, le medicine fanno fatica a entrare, il carburante – che serve per i generatori – manca ogni giorno di più. È una situazione estrema, più di così che può succedere? Non me la voglio neanche porre questa domanda perché ho paura. Siamo al limite, così al limite che non ho neanche sentito tanta rabbia nelle persone, ma solo disperazione totale.

Davanti a una scarsità di farmaci così importante e con così poche strutture ospedaliere funzionanti avete dovuto prendere scelte difficili?

Negli ospedali si lavora con risorse limitate e si prendono scelte difficili. A volte si è costretti a decidere chi salvare e chi no: è devastante, ma è la verità. Ed è dura da accettare come personale medico.

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