Economia
L’individualismoha i conti in rosso
Good books/1 L'economia del bene comune secondo Zamagni
di Redazione
Una raccolta di saggi di Stefano Zamagni recentemente pubblicata, dal titolo indicativo di L’economia del bene comune, offre l’occasione per una riflessione profonda e non convenzionale sul tema dei modelli di sviluppo dell’economia, particolarmente utile in una fase nella quale spirano venti di recessione e i tradizionali approcci del modello liberista mostrano i limiti di una globalizzazione guidata troppo dalla finanziarizzazione.
Intanto Stefano Zamagni ci ricorda opportunamente che «l’economia di mercato è il genus, mentre il capitalismo è una species». Troppo spesso, invece, tra i due termini si genera un corto circuito che rischia di farci perdere la dimensione della complessità dei modelli sociali che possono essere costruiti attorno ad una infrastruttura di regolazione dell’economia, quale è il mercato, che costituisce l’arena nella quale si confrontano le persone e le organizzazioni.
È in questo interstizio, ristretto dall’affermazione – ormai planetaria – del capitalismo “scozzese” alla Adam Smith, che riemerge ora la sfera, crescente, di attività del settore non profit. Queste riflessioni implicano mettere in discussione quella che Stefano Zamagni chiama la “one best way”, il pensiero unico che si alimenta dal modello dicotomico di ordine sociale in base al quale lo Stato è identificato con il luogo degli interessi pubblici, ovvero della solidarietà, ed il mercato con il luogo del privatismo. Per Zamagni «è oggi urgente prendere atto che la crescita ipertrofica di Stato e mercato privato è parte non secondaria nella spiegazione di numerosi problemi che intrigano le nostre società».
La necessità di mettere in discussione il “pensiero unico” nasce anche dalla radicalizzazione che sta assumendo una competizione che si orienta verso quella che gli economisti definiscono la competizione “posizionale”, basata sul principio del “chi vince prende tutto”, secondo il cosiddetto “effetto superstar”, così chiamato dall’economista americano Shermin Rose.
L’effetto peggiore di questa radicalizzata concezione del mercato è quello di farci credere che un comportamento ispirato a valori differenti da quelli dell’interesse individuale conduce inesorabilmente al disastro economico. Eppure, sono molti ormai gli studi e le analisi degli economisti che mettono al centro dello sviluppo economico valori come la fiducia, la reciprocità, il capitale sociale. L’economia convenzionale si basa oggi tuttora sulla massimizzazione della utilità, mentre lascia sullo sfondo il perseguimento della felicità: l’individualismo è una ottima guida per l’utilità, ma è invece cattivo compagno per la felicità, che può essere realizzata solo in un ambito sociale. Il paradosso dei nostri tempi nasce dal crescente bisogno di processi di decisione collettivi e di sforzi cooperativi, mentre invece i modelli sociali prevalenti sono ancora orientati alla massimizzazione delle utilità individuali.
Tale percorso si rende ancor più necessario per il fatto che, nella società del nostro tempo, i tratti antisociali del comportamento economico hanno raggiunto livelli di intensità preoccupanti. Le economie dell’Occidente avanzato, ma anche l’incombente economia asiatica che avanza, sono diventate macchine straordinariamente efficienti per soddisfare una ampia gamma di bisogni materiali, ma non altrettanto si può dire di esse per quanto attiene ai bisogni relazionali.
L’opportunità di una trasformazione di sistema, per costruire nuovi modelli operativi attenti alla connettività del tessuto sociale, è una priorità strategica oggi, nella società della globalizzazione, in quanto la nuova economia integrata su scala mondiale, con gli attuali meccanismi economici, è molto efficiente nella produzione di ricchezza, ma non altrettanto nella redistribuzione tra tutti coloro che hanno partecipato alla creazione di ricchezza. Questo fenomeno è connesso al fatto che i sistemi economici basati sulla produzione di idee, che sono oggi alla base della globalizzazione, tendono, a parità di condizioni, a generare maggiore ineguaglianza dei sistemi basati sulla produzione di merci. La globalizzazione genera una separazione crescente tra i luoghi in cui viene prodotta la cultura ed i luoghi in cui può essere consumata.
È anche per questo che c’è bisogno, secondo Zamagni, di quella che Cohen chiama la democrazia deliberativa, vale a dire «una deliberazione pubblica focalizzata sul bene comune», nella quale chi vi partecipa è disponibile a mettere in gioco le proprie preferenze iniziali, poiché le preferenze e le convinzioni rilevanti sono quelle che emergono da o sono confermate dalla deliberazione stessa.
Insomma, per riscrivere i meccanismi di funzionamento economico e sociale è indispensabile rimettere in moto energie e valori che pongano al centro la persona nella sua dimensione completa. Si tratta di invertire una rotta, che oggi privilegia modelli di società che «tendono ad economizzare l’uso delle virtù da parte dei cittadini». E le virtù, come ci spiega bene Zamagni, al pari dei muscoli si atrofizzano con il disuso.
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