E’ uscito il rapporto Istat sulla disabilità. E’ molto corposo, pieno di dati che riguardano i principali ambiti dell’integrazione: scuola, lavoro, ricorso ai servizi sanitari. Sono stato più attratto però dai contributi che riguardano i comportamenti quotidiani, ordinari, informali. La vita di tutti i giorni insomma: cultura, socialità, tempo libero. E soprattutto le reti di aiuto. Certamente quelle che vengono da agenzie di servizio (pubbliche o private che siano), ma anche quelle che ruotano dentro – ma soprattutto fuori – le mura domestiche. I dati spesso non sono recenti, ma in compenso sono molto approfonditi. Un quadro statistico utile, anche per togliere quel velo di retorica che ammanta certa produzione scientifica (e programmatoria) dove si enfatizza il ruolo delle reti informali come fattore di integrazione. Tirando le somme, e magari aprendo una discussione un poco più approfondita, sembra emergere una sorta di “divide relazionale”. E’ vero che le famiglie dove ci sono persone con disabilità sono più aiutate anche grazie ai rapporti parentali e di vicinato. E che questa tendenza segna una crescita nel tempo, a fronte di un impoverimento considerando tutti i nuclei familiari. Però una parte ancora significativa non può contare su questa risorsa, con effetti negativi che si notano proprio in quel mondo vitale che nel novecento chiamavamo “tempo libero”, nel quale non agiscono, o lo fanno solo in parte, le organizzazioni sociali. Eppure il sale dell’integrazione credo si trovi proprio lì.
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