Cultura

L’impronta di Pasolini

Il 2 novembre 1975 veniva assassinato ad Ostia Pier Paolo Pasolini. Quella di Pasolini è una memoria ancora viva, lo è soprattutto nelle periferie romane dove è impossibile non incrociare i tanti murales dedicati a lui. L'artista Nicola Verlato qualche tempo fa ne ha realizzato uno bellissimo "Hostia", ribattezzato la "Cappella Sistina di Torpignattara". «Questo lavoro rappresenta la discesa del corpo di Pasolini al momento della sua morte», dice l'artista. «Con lui Petrarca, suo mentore ideale e il poeta controverso Ezra Pound»

di Anna Spena

Nella notte tra il 1º e il 2 novembre 1975 Pier Paolo Pasolini veniva ucciso. Il suo corpo è stato ritrovato sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia. Quella di Pasolini è una memoria – per fortuna – ancora viva. Lo è in modo particolare in quelle periferie romane, in quella terra della “subcultura”, di cui lui stesso aveva fatto il suo oggetto di studio, indagine e anche creazione poetica principale.
 Prima le ha amate, poi aspramente criticate quando le ha viste sempre più velocemente. omologarsi lasciando appiattire quel fermento vitale che le accendeva tutte.
La città pullula di murales dedicati a lui. Li troviamo ovunque. Pigneto, Torpignattara, Quadraro.

Torpignattara in maniera particolare è stata una delle borgate più amate dal poeta. Ed è qui che nell’aprile 2014 l’artista Nicola Verlato ha “dipinto” quella che poi è stata definita la “Cappella Sistina di Torpignattara”. Un murale “Hostia” sulla facciata di una palazzina, alta circa dieci metri per sei di lunghezza, in via Galeazzo Alessi. Realizzato con acrilico su intonaco, il murale rappresenta biblicamente la morte, la caduta di Pier Paolo Pasolini.

«Questo lavoro rappresenta la discesa del corpo di Pasolini al momento della sua morte. In alto si vede la figura del presunto assassino Pelosi e due giornalisti che lo intervistano. Pasolini precipita verso un luogo allegorico, una sorta di isoletta in cui trova se stesso bambino seduto sulle ginocchia della madre cui dedica i suoi primi versi, mentre si rivolge a Petrarca, suo mentore ideale a quel tempo. Vicino a lui c’è anche il poeta controverso Ezra Pound, che lo scrittore incontrò nel 1969 per un’intervista», racconta Nicola Verlato. «Credo che i due artisti siano accomunati dall’essere stati respinti dalla società, ma speravano entrambi di essere poeti formatori della società stessa».

Nell’opera Pasolini, appena ucciso, sprofonda sotto terra, attraversando un girone infernale, che ricorda le scene del suo Salò; dall’alto lo osserva il suo assassino, trattenuto da un carabiniere e circondato dalla stampa; nella parte inferiore un gruppo scultoreo ritrae Paso- lini bambino, vicino alla madre, a cui dedica i suoi primi versi, Francesco Petrarca, maestro e punto di riferimento fin dalla giovane età, ed Ezra Pound, grande esponente della poesia del Novecento: due uomini lontani, per storia politica e riferimenti ideologici, ma vicini per via di una certa sensibilità poetica, per l’attrazione verso il tema delle radici e della tradizione, per quell’esprit romanticamente rurale, declinato con la forza di outsider e di pionieri. Tutto questo rivive nel grande murale di Verlato. Un dipinto che assomiglia a un gigantesco lavoro a grafite, in cui si fondono cinema, teatro, poesia, ma anche pittura, scultura e architettura, evocando la forza primigenia del disegno.

Come nasce l’opera dedicata a Pier Paolo Pasolini a Tor Pignattara?

Il Murale a Torpignattara nasce come un tentativo di contenere in una unica immagine una serie di pensieri su Pasolini che facevo da molti anni.
Avevo ascoltato una serie di sue interviste su Radio Radicale qualche anno fa e mi avevano molto colpito alcuni aspetti, soprattutto quelli relativi all’infanzia nei quali mi sorpresi di quanto mi riuscisse facile identificarmi. In più, nello stesso programma radiofonico, ho avuto modo di conoscere le teorie (non necessariamente condivisibili) di Zigaina sulla sua morte.
Un documento che mi ha molto colpito poi è stata l’intervista per la Rai che Pasolini ha fatto a Pound nel 1967: il confronto fra i due, provenienti come si sa da fronti opposti, si risolve nel loro comune antagonismo al sistema sociale in cui erano venuti ad operare, entrambi accomunati da una fede nel potere dell’arte che la modernità ha rifiutato.

Perché proprio Pasolini?
Io sono sempre alla ricerca di mitologie che mi permettano di articolare la superficie della tela secondo quella che io ritengo sia una funzione sociale che l’artista deve svolgere, dare forma alla produzione mitologica del proprio tempo. Pasolini è l’unica figura italiana recente che secondo me ha il potere di vedersi protagonista delle mie composizioni, proprio per la complessità della sua figura, insieme di intellettuale e di corpo, e quindi di un mito in formazione di cui lui stesso ha avviato consapevolmente la creazione.

Secondo te, da artista, che rapporto esiste tra Pasolini e Roma, anche considerato che sono tantissimi i murales dedicati a lui in città.

Credo che il rapporto sia quello di una sorta di processo di beatificazione popolare in corso. Pasolini, credo consciamente, ha voluto creare di sé un’immagine che sgorgasse proprio dai ceti popolari della città; quelli che vivono il territorio nel modo più intenso, e credo che non sia un caso che proprio il territorio ora si trovi ad essere il luogo privilegiato della materializzazione in immagini dipinte e della moltiplicazione della sua immagine. Pasolini ha riattivato un processo di figurazione che si fonda sull’eccezionalità corporea del suo protagonista. L’intellettuale che si fa corpo, è come, nella modernità secolarizzata, il logos che si fa carne, riproponendo la possibilità, nel mondo deserto di significati del capitalismo, che le immagini ritornino a formare il territorio.

Secondo te è un “più” di vitalità che in qualche modo cerca di rispondere a quello che PPP aveva ipotizzato alla fine degli anni ’70 sulla fine delle periferie e sulla loro qualità identitaria?

Credo che Pasolini avesse perfettamente compreso cosa fosse la radice della cultura occidentale. Egli sapeva bene cosa il mercato stava costruendo nelle periferie delle città che, proprio per la sua radice nichilista se non contrastata dal suo opposto dialettico (l’arte), produce dei mostri urbani. Le immagini e l’arte in genere, soprattutto se radicate forte- mente nei luoghi e connessa con le narrative proprie delle comunità che li abitano, vanno considerati, secondo me, come lo strumento per l’inizio di un possibile riscatto.

Nicola Verlato è nato a Verona il 19 febbraio 1965. Ha iniziato a dipingere all’età di sette anni, e a vendere i suoi quadri a nove. La sua formazione artistica è stata poco ortodossa. Lui si considera quasi un autodidatta. La sua prima mostra importante è stata organizzata quando lui aveva quindici anni nel municipio di Lonigo. Ha inoltre studiato architettura presso l’Università di Venezia dove ha vissuto per quasi 13 anni realizzando quadri e ritratti con scene allegoriche per dell’aristocrazia locale e gli stranieri benestanti che vivono in quella città. Durante questo periodo a Venezia, ha lavorato su quasi tutto ciò che era collegato con il disegno: scenografia, decorazioni temporanee, illustrazioni, fumetti, storyboard. Intorno ai 28 anni ha iniziato ad interessarsi di arte contemporanea, e a fare mostre, personali e collettive, in numerose galleria sia italiane che estere. Dopo aver trascorso 7 anni a Milano, nel 2004 ha deciso di trasferirsi a New York. In questi ultimi anni ha fatto mostre a New York e in varie gallerie e musei di tutti gli Stati Uniti. I suoi lavori sono stati esposti anche in Italia e Norvegia, India, così come in Germania, in Olanda e in altri paesi euro- pei. Ha partecipato con un’installazione di dipinti e sculture come rappresentante del Padiglione italiano alla Biennale di Venezia del 2009.

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