Economia

L’impresa sociale per ripartire

Si respira un’aria nuova nell’economia sociale italiana e molti segnali indicano che si è aperta una fase di grandi cambiamenti. Una stagione nella quale ciò che si definisce non profit, o anche Terzo settore, ha l’occasione di compiere quel salto di qualità imprenditoriale che gli si chiede da tempo

di Massimo Calvi

Si respira un’aria nuova nell’economia sociale italiana e molti segnali indicano che si è aperta una fase di grandi cambiamenti. Una stagione nella quale ciò che si definisce non profit, o anche Terzo settore, ha l’occasione di compiere quel salto di qualità imprenditoriale che gli si chiede da tempo, pensionando vecchi schemi culturali e residuati ideologici per contribuire a sostenere un modello di sviluppo più adatto alla fase che l’Occidente sta attraversando. Una parte del merito di questo scatto va riconosciuta al governo Renzi: il presidente del Consiglio ha chiamato al ministero del Lavoro un esponente del mondo della cooperazione come Giuliano Poletti, ha citato espressamente il Terzo settore nel suo primo intervento pubblico, e quando ha illustrato i contenuti della “svolta buona” ha annunciato l’avvio dal primo giugno di un «Fondo per non andare a fondo», 500 milioni di euro a disposizione delle imprese sociali.

Non è ancora deciso come questo fondo dovrà operare e, soprattutto, chi finanzierà. Ma un primo risultato sembra averlo prodotto nell’accelerazione impressa a un’altra riforma fondamentale, quella per la riforma dell’impresa sociale. Settimana prossima verrà presentato un disegno di legge che punta a superare i limiti della normativa precedente (legge 155/2006), ponendo le basi per un nuovo scenario di mercato. L’iniziativa si deve al sottosegretario al Lavoro, Luigi Bobba, già presidente delle Acli e politico di riferimento per il Terzo settore italiano, che da onorevole aveva lavorato al progetto insieme al senatore Stefano Lepri. Il passaggio potrebbe rappresentare una rivoluzione per il nostro Paese, che è stato l’inventore in Europa della formula della cooperativa sociale (legge 381/91), ma che negli ultimi anni si è visto superare dal Regno Unito sul terreno dell’innovazione finanziaria per il non profit. Poletti e Bobba ieri, durante un evento organizzato da Vita e dal Cergas Bocconi, hanno dato voce al nuovo fermento. «In questa fase l’economia sociale ha una grandissima opportunità e credo che possa essere una parte essenziale delle politiche di sviluppo», ha detto il ministro. Diretto anche il sottosegretario: «Ora abbiamo poco più di due mesi di tempo per trasformare una slide in una politica, un disegno organico».

Occasione unica, insomma. Ma che cos’è, come cambierà, e soprattutto perché deve cambiare, l’impresa sociale? Il punto è che il contesto economico, rispetto a qualche anno fa, è profondamente mutato. La crisi ha reso sempre più evidente quanto sia fondamentale lo sviluppo di un sistema di welfare sussidiario, inclusivo e universale, a fronte di un ridimensionamento del ruolo dello Stato. Una prospettiva che l’Europa ha inquadrato con chiarezza. Nel 2011, con la Social Business Initiative, l’Ue ha varato un piano d’azione per lo sviluppo dell’impresa sociale per sostenere occupazione e crescita. Lo scorso gennaio, con il Manifesto di Strasburgo, sono state poste le basi per quella che Letizia Moratti, ambasciatrice della Comunità di San Patrignano, definisce la «fase due, necessaria a implementare l’infrastruttura sociale e arrivare alla misurabilità dei risultati dell’impatto sociale». Nel giugno 2013, su impulso di sir Ronald Cohen, presidente di Big Society Capital, è stato costituito un gruppo di lavoro del G8 per favorire la costituzione di un quadro internazionale capace di promuovere il mercato dell’investimento ad alto impatto sociale, del quale fa parte la presidente di Human Foundation, Giovanna Melandri.

Lo scenario è quello di un’Europa dove la social economy vale il 10% del Pil, conta 11 milioni di lavoratori, e punta sull’impresa sociale come volano di sviluppo sostenibile, provando a creare un contesto per attirare buoni capitali privati. Il punto è che in Italia le imprese sociali vere e proprie, cioè quelle iscritte ai registri delle Camere di commercio in virtù della legge che le istituisce, non sono molte, circa 600. Segno evidente che la norma non ha fatto il suo dovere. Molto più vasto è invece il mondo delle cooperative sociali – circa 13mila, con 400mila occupati e 7 milioni di famiglie interessate con l’offerta di servizi di welfare – e che rappresentano il vero nucleo dell’economia sociale italiana. Fatturano 7 miliardi di euro, come ricorda Giuseppe Guerini di Federsolidarietà, a fronte degli 8 miliardi di spesa sociale dei comuni e dei 16 miliardi spesi per il welfare dalla famiglie, cifre che ne fotografano bene la potenzialità. Il loro ambito di intervento è soprattutto quello della sanità e dell’assistenza sociale, oltre che dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. E sono in espansione costante. Negli ultimi 10 anni, rileva una ricerca Aiccon, sono cresciute del 53%. Un rapporto del Censis ha registrato che l’occupazione è cresciuta in questo ambito del 17% dal 2003 al 2011. Inoltre, nell’ultimo anno, il 60% ha registrato risultati positivi e il 30% ha aumentato l’occupazione. Se poi si dovessero considerare anche le imprese “for profit”, che già operano nelle attività previste dalla legge 155, ma non si sono registrate come tali, e sono circa 85.000, ecco che il numero di potenziali imprese sociali in Italia salirebbe a 120mila.

Nasce anche da queste considerazioni l’intervento sulla normativa. Le modifiche fondamentali della proposta di Bobba mirano a rendere il recinto più ampio, generando una contaminazione, quasi un’ibridazione, tra profit e non profit. Oltre alle coop sociali e alle imprese con le caratteristiche richieste, ne faranno parte ad esempio il commercio equo e solidale, le iniziative di housing sociale, il microcredito, le iniziative di reinserimento lavorativo. Tra le nuove misure proposte vi è poi l’obbligatorietà dell’assunzione dello status di impresa sociale per chi ne ha le caratteristiche, o la possibilità di remunerare il capitale – anche se in misura limitata e non speculativa – a l fine di attirare nuovi investitori. Decisivi saranno altri due aspetti: l’estensione alle imprese sociali del regime fiscale delle Onlus e, soprattutto, dei vantaggi riconosciuti alle “start up” innovative; la possibilità che una quota del patrimonio trasferito dallo Stato a comuni, province, città metropolitane, e regioni, sia destinato allo sviluppo delle imprese sociali.

Quella che si annuncia è una rivoluzione sociale. E questo avviene mentre un grande cantiere di idee e proposte sembra essersi aperto. Andrea Rapaccini, di Make a Change, propone ad esempio di coinvolgere le imprese sociali nei processi della nuova ondata di privatizzazioni che si annuncia, in particolare a livello di servizi locali. Il direttore generale di Federcasse, Sergio Gatti, avanza l’idea di un social supporting factor affinché nell’erogare credito sia richiesta alle banche un’esposizione patrimoniale inferiore se si tratta di imprese sociali. Enzo Manes, imprenditore con Intek Group e imprenditore sociale con Dynamo Camp, suggerisce all’amico Renzi la formula di quello che chiamerebbe «Fondo strategico italiano per l’impresa sociale»: dotazione di 500-1.000 milioni, capace di fare da moltiplicatore per attirare altri fondi privati, con restituzione del capitale investito, e decisamente orientato a sostenere la creazione di posti di lavoro.

Il motore dell’economia sociale si è rimesso in moto. Per usare un’immagine di Bobba, dopo un lungo periodo durante il quale è stata riscaldata, «l’acqua ora ha incominciato a bollire» e la chiusa della mattinata di Bonacina, presidente di Vita «Bene è ora di buttare la pasta».

da Avvenire del 15.03.14

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