Cultura

L’impresa sociale? L’avete inventata voi

La cooperazione sociale del nostro paese ha tracciato un modello sin dagli anni 80, capace di gettare un ponte tra le finalità imprenditoriali e quelle dell’associazionismo. Parla Hacques Defourny

di Redazione

Come l?intendo io, l?economia sociale ha un duplice funzione: farsi carico delle persone escluse dalle mutazioni del capitalismo liberale e cogliere i nuovi mutamenti sociali in corso prima che questi fenomeni vengano presi in carico dalla collettività». Parola di Jacques Defourny, uno dei massimi esperti di economia sociale in Europa, a Milano per l?avvio del master, organizzato dalla Cattolica, Organizzazione di terzo settore e imprese sociali. Culture, politiche, gestione. SJ: E secondo lei, quali sono gli esempi europei di best practice in tema di impresa sociale? Jacques Defourny: Nel terzo settore, le pratiche imprenditrici occupano uno spazio sempre più importante. In Italia, le cooperative sociali sono l?incarnazione di questa tendenza così come la Gran Bretagna, dove il governo Blair ha lanciato nel 2002 un programma di promozione delle social entreprises come parte integrante della cosiddetta terza via. Entrambi i fenomeni sono il riflesso di un trend evidente nell?economia sociale: se prima predominava una sovrapposizione tra la tradizione cooperativa e quella associativa, oggi si sta affermando un?imprenditoria sociale che stabilisce un ponte tra la base imprenditoriale delle cooperative e quella a finalità sociale dell?associazionismo. Questo processo è debitore del modello italiano di cooperative sociali tracciato sin dalla fine degli anni 80. SJ: Come si spiega? Defourny: Perché i fondi statali sono sempre più esigui; perché non si sa ottenere fondi a sufficienza da parte delle fondazioni; perché ci sono molti lavoratori da reinserire nel mondo del lavoro attraverso dinamiche capitalistiche. Queste le spiegazioni più plausibili. SJ: L?economia sociale è un fenomeno residuale o incisivo nel mondo capitalistico? Defourny: Penso che il ruolo del terzo settore sia preso molto più in considerazione rispetto a venti o trent?anni fa. Un primo indice ci è offerto dal numero di legislazioni nazionali che stanno adottando quadri legali per attività in grado di generare introiti con finalità sociali. Penso alla Francia, che ha adottato uno statuto di società cooperative di interesse collettivo; alla Gran Bretagna, con le sue community interest company; oppure ai belgi, che puntano su società commerciali a finalità sociale. Tutte scelte che trovano conferme nelle cifre del terzo settore. In Europa, il peso della manodopera salariale dell?economia sociale varia, da un?economia nazionale all?altra, tra il 14 e il 6%. Per non parlare della crescita impressionante dei conti satelliti, pubblicati secondo le regole contabili nazionali. Si tratta di un atout di enorme importanza per convincere i decisori politici e l?opinione pubblica perché, se fino ad ora l?economia sociale era percepita come una nebulosa incomprensibile, oggi la sua ricchezza è misurabile attraverso dati macroeconomici. SJ: Perché la possibilità di misurarne l?impatto è così importante? Defourny: Nei confronti dei detrattori dello Stato sociale, accusato di sperperare il denaro dei contribuenti e di ostacolare la libera impresa, l?economia sociale può dimostrare che si possono sviluppare attività economiche efficienti con finalità e modi di organizzazione davvero diversi. Questo significa che la produzione della ricchezza non è più una prerogativa di coloro che applicano le regole di mercato e di profitto. La diversità dei modelli socio-economici costituiscono poi una risorsa fondamentale per lo sviluppo europeo. SJ: Dall?Est Europa che vento soffia? Defourny: Ungheria e Polonia sono i due paesi trainanti per l?impresa sociale. Durante la guerra fredda, il regime ungherese ha offerto alla società civile e a un nucleo di capitalisti spazi di libertà fondamentali di cui ancora oggi si misurano gli effetti positivi. La Polonia ha invece potuto contare sull?apporto enorme offerto dalla Chiesa cattolica, sempre pronta a sostenere i sindacati e la società civile. SJ: In quali sistemi di welfare il privato sociale può trovare più spazio? Defourny: È difficile stabilirlo. Prendiamo ad esempio il modello scandinavo. Fino a pochi anni fa, lo Stato si faceva carico della quasi totalità della produzione di beni e di servizi sociali. In quel periodo, un numero impressionante di associazioni si erano poste l?obiettivo di vigilare le attività sociali dello Stato. Ma con la crisi economica, il mondo non profit è passato dal ruolo di supervisore dei servizi sociali prodotti a produttore di questi stessi servizi. Penso alle cooperative svedesi impegnate nel doposcuola. Nel modello britannico, l?importanza del non profit nelle politiche di welfare è invece dovuto al modo in cui si intende la cittadinanza. Oltre a garantire i diritti, essa impone al cittadino un impegno volontario a favore del benessere collettivo. La Gran Bretagna è assieme agli Stati Uniti il paese dove i cittadini concedono più tempo a attività di volontariato. Il Sud dell?Europa è sul piano sociale segnato dall?importanza svolta nel passato dalle famiglie che, indebolite dalla crisi economica, hanno concesso al terzo settore di fare da garante nei confronti dello Stato. SJ: La molteplicità di modelli di welfare non rischia di penalizzare la crescita economica dell?Europa? Defourny: Quando sono in gioco le sfide sociali, il coinvolgimento del terzo settore deve limitarsi alle specificità regionali e locali perché è a questi livelli che si fanno le grandi scelte di società.

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