Economia
L’impresa sociale è fuori di sé
Bisogna riconoscere che gli elementi costitutivi della cultura organizzativa e manageriale di questo modello imprenditoriale sono oggi sparsi all’interno di altre istituzioni e formazioni sociali. Individuare questi soggetti e “ri-stabilire” con essi, grazie anche alla nuova norma, una connessione di senso consentirebbe di mostrare che l’impresa sociale è in grado di dotarsi di un progetto di sviluppo per la società in generale, fuori dalle nicchie settoriali. L'analisi di Iris Network
di Redazione
Nella lunga e composita “sequenza genetica” dell’impresa sociale – della cooperazione sociale in particolare – un segmento importante corrisponde alla capacità di incapsulamento. Una propensione di natura protettiva che è legata a necessità di sopravvivenza proprie, ma anche riferite ad altri soggetti, e che si rende visibile a più livelli. Nei mercati, ad esempio, guardando all’utilizzo diffuso di procedure di coprogettazione e contrattazione, in particolare con la Pubblica Amministrazione, con l’obiettivo di veder riconosciuto lo “statuto speciale” dell’impresa sociale nell’esercizio della funzione pubblica. Una strategia che si attua negli interstizi delle normative e nelle pieghe dei legami fiduciari, generando opportunità di innovazione nel welfare e, al tempo stesso, accuse di ambivalenza per un soggetto che è al contempo policy maker e appaltatore di servizi pubblici.
L’incapsulamento è visibile anche a livello normativo, in particolare nei passaggi recenti che hanno preceduto la pubblicazione del decreto sull’impresa sociale nell’ambito della riforma del terzo settore. Un tentativo, per ora andato a vuoto, di allineare la cooperazione sociale al più vasto (anche se ancora potenziale) contesto dell’impresa sociale, in particolare per quanto riguarda gli ambiti di attività. Se è vero, infatti, che la cooperazione sociale è il modello fondativo e più diffuso di impresa sociale, è altrettanto vero che la sua legge di riferimento (n. 381/91) la vincola ad operare in settori come l’erogazione di servizi socio-assistenziali, educativi, sanitari e l’organizzazione di percorsi di inserimento lavorativo, mentre invece la norma sull’impresa sociale (l. n. 106/16 e successivi decreti) riconosce una qualifica che è applicabile a diversi soggetti giuridici (di origine sia profit che non profit) allargando lo spettro dei settori anche a materie come cultura, ambiente, turismo, abitare sociale, ecc. Allargare l’operatività alle cooperative sociali, peraltro oggi riconosciute come imprese sociali ex lege, consentirebbe di mettere a valore all’interno dei nuovi ambiti un vantaggio competitivo maturato in oltre trent’anni di operatività. Ma contemporaneamente potrebbero mantenere importanti vantaggi fiscali come l’Iva agevolata sui servizi sociali e la defiscalizzazione dei costi del lavoro per i soggetti svantaggiati coinvolti nei percorsi di inserimento lavorativo; agevolazioni che invece non sarebbero accessibili per imprese con la stessa qualifica, organizzate però a partire da modelli diversi.
Quella che può apparire una questione tecnica è in realtà profondamente politica. La propensione a incapsulare il nuovo contesto normativo che si evidenzia in questa proposta di modifica si misura, oggi più di ieri, con la necessità che l’impresa sociale diventi davvero “per tutti”, come peraltro sostenuto da importanti segmenti della stessa cooperazione sociale, intercettando cioè nuove forme di economia e socialità ormai emerse dall’ultima ondata di innovazione socio-tecnologica. Questo richiede di potenziare la capacità di essere un sistema aperto e connesso e di rappresentarsi non attraverso una parata “muscolare” di buone pratiche e progetti che rischierebbe di alimentare l’autoreferenzialità e il carattere occlusivo del sistema, limitando, di fatto, la sua attrattività verso soggetti esterni.
La sfida, piuttosto, è riconoscere che gli elementi costitutivi della cultura organizzativa e manageriale di questo modello imprenditoriale sono oggi sparsi all’interno di altre istituzioni e formazioni sociali. Ciascuna di queste, anche in modo non consapevole, ha ripreso altre componenti del codice distintivo dell’impresa sociale di prima generazione e ne ha fatto un modello di successo, potenziandone il valore. Individuare questi soggetti e “ri-stabilire” con essi, grazie anche alla nuova norma, una connessione di senso consentirebbe di mostrare che l’impresa sociale è in grado di dotarsi di un progetto di sviluppo per la società in generale, fuori dalle nicchie settoriali.
I beneficiari di questo approccio “open source” sarebbero non solo i nuovi stakeholder di un più vasto contesto di imprenditoria a impatto sociale, ma la stessa cooperazione sociale che potrebbe “riportare a casa” questi elementi di valore ri-facendoli propri in una versione aggiornata, consentendo così una ridefinizione della propria mission e capacità operativa. Un’operazione di scaling che segnerebbe un passaggio epocale per un sistema che ha basato fin qui la propria crescita sulla valorizzazione delle capacità interne, sostituendolo con un modello improntato su una competenza aiutopoietica, in grado cioè di metabolizzare innovazioni riconducibili alla propria identità ma arricchite dal fatto di essere state elaborate in contesti sociali, culturali, economici diversi. Un percorso di svelamento che, in sintesi, confermerebbe la rilevanza di un progetto di trasformazione sociale basato sulla produzione di “interesse generale della comunità”, nella misura in cui l’impresa sociale sa andare oltre se stessa ricomponendo in forma di risposta a temi chiave – lavoro, welfare, coesione, educazione – esperienze che oggi hanno punte avanzate in contesti diversi: la coproduzione nei community hub della rigenerazione urbana, le imprese piattaforma della condivisione digitale, il neo mutualismo dei coworking, i mercati a valore sociale del “buono, pulito e giusto”, l’impatto sociale della finanza, il valore dell’esperienza nella produzione culturale, ricreativa e turistica, ecc.
Il format di questo nuovo modo di fare sviluppo “per apprendimento” è in parte già sperimentato e si basa essenzialmente su tre ingredienti: il primo è la moltiplicazione dei luoghi d’incontro con persone e organizzazioni che hanno sviluppato l’animal spirit dell’impresa sociale; il secondo richiede l’affermazione di una nuova generazione di imprenditori sociali capaci di ricomporre il nuovo codice di questa forma d’impresa attraverso un “trasferimento tecnologico” intelligente; infine, il terzo ingrediente consiste nel rafforzamento di un ecosistema di risorse finalizzato a facilitare la crescita mettendo a regime innovazioni ormai mature.
Sono le stesse linee guida intorno alla quali ruota la rilevazione su organizzazioni, progetti ed ecosistema dell’impresa sociale italiana che alimenterà la nuova edizione del rapporto Iris Network.
da Iris Network del 17 maggio 2017
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