Non profit

L’impresa sociale è ancora all’anno zero

Viaggio alla ricerca di chi ha scelto la nuova forma giuridica

di Luca Zanfei

Incertezza sui numeri. Camere di commercio al palo sul fronte informativo (un solo sportello ad hoc fallito per mancanza di fondi). Un’unica certezza: le scuole paritarie hanno sfruttato la norma. E il terzo settore? Tre anni saranno anche pochi per giudicare una legge, ma decisamente troppi per evitare polemiche e sostanziali pronunce di fallimento. Se poi si parla di impresa sociale, il passo da grande opportunità a flop è relativamente breve, soprattutto se la sentenza arriva direttamente da un grande sostenitore della legge 155/2006 come Stefano Zamagni.
Ma si può parlare di vero flop? Per capirlo bisogna necessariamente passare per le Camere di commercio. E qui nasce il primo problema. Perché se agli uffici di Infocamere si rilevano soltanto 27 imprese sociali iscritte alla speciale sezione L del Registro delle imprese, spulciando il data base online (www.registroimprese.it) di imprese con denominazione “sociale” ne risulterebbero 370, di cui tra le 100 e le 150 effettivamente “di nuova generazione” secondo la legge 155. Dove sta la verità? Secondo il responsabile delle relazioni esterne di Infocamere, Roberto Susanna la differenza sta nel fatto che «le Camere di commercio hanno la facoltà, motivandola, di accettare o meno la richiesta di iscrizione alla sezione L». Il che vuol dire che oggi la stragrande maggioranza di imprese sociali sarebbe irregolare o comunque con denominazione impropria e fuorviante. Un dato allarmante, se non fosse che negli uffici Registro delle più importanti Camere di commercio non si è nemmeno a conoscenza dell’esistenza di una sezione L e in molti casi della stessa legge 155. E allora da chi sono state rigettate le domande? Sempre da Infocamere si aggiusta il tiro e si fa sapere che «data la giovane età della legge è normale imbattersi in lungaggini procedurali» e che «in alcuni casi, lo zelo di alcune imprese potrebbe aver anticipato l’informativa interna che regolava l’istituzione della sezione speciale e le procedure di iscrizione». Fatto sta che oggi non si riesce ancora a capire se esistono imprese sociali fantasma, ancora in attesa di essere inserite nella famosa sezione di competenza, o se in effetti ci si ritrova di fronte a un fenomeno preoccupante di denominazioni improprie.
L’unico dato certo è che finora solo tre Camere di commercio – Rimini, Pisa e Livorno – hanno messo online guide all’iscrizione per le nuove forme giuridiche e che l’unico sportello informativo, aperto alla Ccia di Latina, ha chiuso per mancanza di fondi. Il risultato è un clima di confusione che colpisce gli stessi diretti interessati. Come per esempio Dario Montalbetti, presidente della neonata impresa sociale Green Hub srl di Milano, attiva nella progettazione ambientale. «Non c’è stato alcun aiuto da parte della Camera di commercio», spiega. «Bisogna affidarsi ai commercialisti e iscriversi genericamente al registro come impresa sociale. Il rischio è quello di trovarsi di fronte a un numero considerevole di realtà registrate come imprese sociali senza i requisiti».

La carica delle paritarie
In attesa, allora, che le Camere di commercio recepiscano le informative interne, non resta che tracciare un identikit della nuova forma giuridica. E qui “reale” e “virtuale” sembrano coincidere. Perché sia gli uffici di Infocamere che il Registro delle imprese online rilevano una percentuale altissima di iscrizioni nel Sud, con particolare concentrazione in Campania. Pochissime, invece, sarebbero le imprese sociali nel Centro Italia, tanto che alla stessa Camera di commercio di Roma ne risulterebbero iscritte soltanto due. Ancor più curioso è il dato sulla tipologia di attività condotte dalle nuove forme giuridiche. La quasi totalità rientrerebbe nella categoria delle scuole paritarie, ex srl, snc o imprese individuali, che tra il 2007 e il 2008 hanno cambiato lo statuto, adeguandosi alle direttive della 155/2006. La spinta è arrivata direttamente dalla Finanziaria 2007 e dal successivo decreto dell’ex ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, che hanno rimodulato i criteri di assegnazione dei contributi statali alle scuole paritarie, destinandone l’80% alle non profit sotto forma di associazioni, cooperative sociali e, appunto, imprese sociali. «A quel punto molte delle scuole del Sud che già applicavano rette bassissime hanno dovuto scegliere la formula dell’impresa sociale, sicuramente la più vicina al precedente modello gestionale», spiega Carlo De Rosa, presidente dell’Associazione scuole paritarie italiane. «Oggi nella sola Campania ci saranno un centinaio di scuole paritarie sotto forma di impresa sociale». Ma la nuova forma giuridica non ha portato solo più soldi, «ha contribuito anche a rivedere le nostre attività e l’impegno nel sociale», aggiunge De Rosa.
E il terzo settore? Finora sembrerebbero pochissime le associazioni e gli enti non profit che hanno scelto di cambiare statuto. In più, nella maggioranza dei casi il passaggio è stato imposto da direttive regionali e, comunque, vissuto con non poca perplessità. È il caso soprattutto delle cooperative sociali – ad oggi poco più di 10-15 unità – che si sono adattate alla nuova normativa. «Per noi il passaggio è stato naturale perché il nostro statuto era già compatibile con i dettami della legge», spiega Luigi Chiari, amministratore delegato del Consorzio Il Frutteto di Brescia, «ma se devo essere sincero non è cambiato nulla e non so che necessità pratica ci sia a fare un simile cambiamento. È stato solo un modo di formalizzare una denominazione e un’identità che ha da sempre caratterizzato l’attività della cooperazione sociale».
Forse anche per questo lo sportello di assistenza all’impresa sociale di Latina non ha riscosso un enorme successo, nonostante i 160 accessi in due anni. «Le richieste di consulenza hanno riguardato esclusivamente la forma cooperativa», spiega Francesca Pierleone, responsabile dello sportello per Confcooperative che, insieme a Legacoop, ha condotto il progetto presso la Camera di commercio. «Non sembra che ci sia molto interesse per l’impresa sociale, forse per ignoranza o forse perché la cooperativa sociale viene finora vista come l’unica forma di imprenditoria realmente strutturata nel terzo settore».

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