Economia

L’impatto dell’immigrazione sull’economia

Secondo l’agenzia Bloomberg, entro il 2020, ci vorranno 42 milioni nuovi europei per sostenere il sistema di welfare e pensionistico del Vecchio Continente. Un’efficace politica d’immigrazione può contribuire a mantenere la dimensione della forza lavoro in quei settori in declino e garantire la crescita di quelli ad alto sviluppo, grazie all'aumento della migrazione di manodopera qualificata che caratterizza i flussi degli ultimi anni

di Monica Straniero

Nei giorni scorsi la cancelliera Merkel aveva più volte ribadito che i tedeschi non possono farcela da soli, invitando gli altri paesi europei a dotarsi di una politica sull’immigrazione in grado di garantire una distribuzione equa dei costi di un’emergenza che riguarda tutta l’Europa. Una spesa di circa sei miliardi di euro quella che la Germania ha deciso di stanziare per accogliere i richiedenti asilo. Come leggere questa svolta dopo messi di silenzi e tentennamenti? La Germania, insieme all’Italia e al Giappone, è tra i paesi super aged, vale a dire almeno un abitante su cinque ha già compiuto 65 anni, e quindi ha bisogno di rifugiati siriani altamente qualificati per contrastare il calo demografico e l’invecchiamento della sua popolazione. In sostanza la Germania ha ben capito che nel giro di quattro o cinque anni, i benefici economici per la propria economia potranno superare i costi necessari per facilitare l’assorbimento della nuova forza lavoro. Ma è l’intera Europa ad essere preoccupata del cambiamento demografico. Secondo l’agenzia Bloomberg, entro il 2020, ci vorranno 42 milioni nuovi europei per sostenere il sistema di welfare e pensionistico del Vecchio Continente.

Insomma Immigration is good for Economy, tanto per citare uno studio rilasciato dall’Ocse nel maggio 2014, dal quale è emerso che negli ultimi dieci anni gli immigrati hanno riempito il 70% di tutti i nuovi posti di lavoro creati in Europa e il 47% negli Stati Uniti. Ci sono altri elementi che l'OCSE considera importanti per rispondere alla domanda se l'immigrazione è più un vantaggio o un peso. Gli immigrati pagano più tasse e contributi previdenziali di quanto non ricevano dal welfare nazionale, questi ultimi nella forma di sussidi di disoccupazione, pensioni, o altre prestazioni sanitarie. Sempre l’Ocse ha calcolato per l’Italia una spesa sulle pensioni per gli stranieri pari solo al 0,2 per cento. Mentre secondo la Fondazione Leone Marassa, che in Italia si occupa di calcolare i costi e i benefici dell’immigrazione, nel 2014 il contributo fiscale degli immigrati ha superato i benefici sociali per quasi 4 miliardi di euro. Per cui, anche in presenza di forti ambiguità nei criteri di valutazione dell’impatto dell’immigrazione sulle finanze pubbliche, vari studi hanno confermato che l’impatto dell’immigrazione sui bilanci statali è minimo. Una conclusione valida soprattutto nei paesi del Sud, caratterizzati da una storia più recente di migrazioni e di tipo soprattutto lavorativo. Per gli economisti si tratta del cosiddetto “surplus dell’immigrazione" per spiegare come l’arrivo di immigrati favorisca la creazione di nuova domanda di beni e servizi e allo stesso tempo incoraggi i datori di lavoro ad assumere più persone. Insomma anche se nel breve periodo i processi migratori possano incidere negativamente sul tasso di occupazione e di reddito dei lavoratori che si collocano nella fascia occupazionale più bassa, nel lungo periodo i flussi migratori sono in genere associati ad una maggiore crescita economica.

L’immigrazione: una risorsa per il Pil? Per l’Ocse molto dipende dalla volontà degli stati. Un’efficace politica d’immigrazione può contribuire a mantenere la dimensione della forza lavoro in quei settori in declino e garantire la crescita di quelli ad alto sviluppo, grazie all'aumento della migrazione di manodopera qualificata che caratterizza i flussi degli ultimi anni. A conti fatti, l’apporto netto all'economia è pari allo 0,3 per cento del Pil.

In Italia, un paese visto e vissuto come terra di transito verso altre destinazioni, il pregiudizio, l'austerità, e l'insicurezza del lavoro rappresentano dei seri ostacoli ad un piano di integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro. Eppure è la stessa Fondazione Leone Marassa ad insistere sulla necessità di non perdere una risorsa importate per il territorio nazionale. “Nel 2014, nonostante la crisi, gli immigrati, più giovani e in età lavorativa hanno mantenuto un livello di occupazione elevato rispetto alla popolazione generale italiana. I lavoratori stranieri, che rappresentano oggi circa il 10% di tutti i lavoratori in Italia, contribuiscono per circa € 123.milioni di euro di valore aggiunto, pari all’8,8% della ricchezza nazionale totale”, si legge nel rapporto della Fondazione.

Infine, a dimostrazione ulteriore del dinamismo della componente migratoria, ci sembra utile riportare i dati diffusi da Unioncamere/Infocamere che evidenziano la crescente diffusione delle imprese condotte da lavoratori immigrati, con circa 28mila imprese in più (+5,6% sul 2013), sulla base dei dati degli ultimi tre anni del Registro delle imprese 86mila in più le imprese create dagli immigrati tra il 30 giugno 2012 e il 30 giugno 2015. Complessivamente, sono oggi poco meno di 540mila, pari all’8,9% del tessuto produttivo nazionale, con una presenza cospicua soprattutto nelle Costruzioni, nel Commercio all’ingrosso e al dettaglio, nel Noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese e nei Servizi di alloggio e ristorazione.

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