Non profit

L’impatto delle B-Corp sull’economia civile

Per Roberto Randazzo l’approvazione in legge di Stabilità della norma sulle benefit corporation potrebbe avere conseguenze anche sul dibattito intorno alla riforma del Terzo settore. Ecco perché

di Roberto Randazzo

La notizia dell'inserimento nella legge di Stabilità dell'emendamento che prevede l'istituzione in Italia delle Benefit Corporation o B-Corp, giunge come un fulmine a ciel sereno nell’ambito della tanto attesa riforma del Terzo Settore.

Mentre decenni di dibattiti e schermaglie ideologiche portavano alla legge delega per la riforma del Terzo Settore, accadeva che una proposta di legge essenziale, chirurgica e visionaria, non più tardi di tre mesi fa, imprimesse un'accelerazione rilevantissima alle nuove prospettive e modalità di "fare business" con lo scopo di dividerne gli utili, ma perseguendo finalità di beneficio comune ed operando in modo responsabile, sostenibile e trasparente. Non c'è che dire, una grande accelerazione!

Alcune precisazioni preliminari
Questo vuole essere un commento a caldo della notizia, non un’analisi di carattere tecnico della disciplina, partendo dal principio che i prevedibili ambiti di operatività delle B-Corp, collimino o si sovrappongano, in tutto o in parte, con i settori in cui operano abitualmente le imprese sociali. Una considerazione di cui, necessariamente, si deve tener conto se la riforma del Terzo Settore vorrà consentire alle imprese sociali, qualsiasi natura rivestano, di essere competitive nei confronti di enti for profit che opereranno nei medesimi settori.

A scanso di equivoci, bisogna anche indirizzare questi ragionamenti verso la parte del settore non profit che svolge attività d’impresa, tenendo distinto il settore non profit che, invece, attività d’impresa non svolge e a cui non sono rivolte queste considerazioni.

Occorre una ulteriore precisazione, quella fondamentale, doverosa e necessaria per fare chiarezza. Non siamo nel campo degli enti senza scopo di lucro, le B-Corp sono enti for profit che, né più né meno, rivestono la struttura di società di capitali che, tuttavia, si prefiggono scopi con valenza di carattere sociale e destinati ad un beneficio comune. Dunque, società commerciali e non enti senza scopo di lucro.

E allora, cosa c'entra la riforma del Terzo Settore? E perché, parlando di una possibile innovazione che riguarda solo il diritto societario, richiamare i decennali dibattiti sul rinnovamento delle discipline del Terzo Settore?

Perché è proprio qui che si deve parlare di sorpasso, dal momento che da anni il tema centrale nell'ambito del social business non è più quello della natura giuridica, ma quello dell'attività svolta. Non conta "chi sei", ma "cosa fai". Almeno, questa è la tendenza nel social business in giro per il mondo, tranne in Italia, tanto che le ibridazioni tra forme giuridiche profit e forme giuridiche not-for-profit hanno portato alla creazione di entità come le Community Interest Company (CIC) nel diritto britannico o le Low Limited Liabilities Company (L3C) nel diritto statunitense, oppure ancora le società Limited by Shares di molti paesi dell'area Commonwealth, anche fra quelli c.d. emergenti. Sempre a scimmiottare gli anglosassoni! Quante volte ho sentito questo commento sarcastico nei convegni … Ed oggi siamo qui a commentare l'attrazione nel nostro ordinamento della più radicale innovazione (anglosassone, of course!) in questo ambito imprenditoriale.

Il nostro Terzo Settore, storicamente ed in maniera solida, attivo nelle aree tipiche del c.d. social business, avrebbe potuto essere guidato – non tutto, è evidente – verso una transizione che anticipasse le forme ibride di gestione imprenditoriale che oggi stiamo commentando, mentre ora sembra essere costretto ad inseguire, almeno nelle vicende che riguardano l'innovazione delle forme giuridiche nel nostro Paese.

Ma forse è meglio così, vediamo adesso come reagiranno gli esponenti del Terzo Settore legati alla tradizione delle forme giuridiche del nostro diritto non profit per rendere competitive le imprese sociali su mercati in cui, sempre di più opereranno anche gli enti for profit della nuova generazione, come le B-Corp.

Il precedente delle SIVS
Queste brevi osservazioni non possono non tener conto di un precedente in tema di innovazione delle forme giuridiche nel settore del social business, quello delle start up innovative a vocazione sociale.

Anche in quel caso abbiamo assistito ad un veloce e non atteso sorpasso in chiave evolutiva da parte delle forme societarie rispetto alle tradizionali entità del Terzo Settore. Mentre la gran parte del sistema era fortemente determinato a difendere un sistema vetusto e palesemente non al passo con i tempi, purché rigorosamente vincolati al divieto di distribuzione degli utili, dilazionando costantemente i tempi di una necessaria riforma, il legislatore introduceva la disciplina delle start up, ideando la peculiare categoria di quelle "a vocazione sociale". L'aspetto che qui rileva è determinato dal fatto che queste start up, operative all'incirca nei medesimi ambiti dell'impresa sociale ex lege, dopo un periodo di lock up di 48 mesi possono distribuire utili, senza alcun limite. E in più godono (questo il vero aspetto rilevante) di un miglior trattamento fiscale rispetto alle altre start up per gli investimenti nel loro capitale. Un tassello che, quasi certamente, ha influito sul successivo dibattito relativo alla riforma della disciplina dell’impresa sociale, poi confluito nella legge delega di riforma del Terzo Settore.

Vediamo quale effetto potrà derivare questa volta dalla prospettiva di disciplinare le B-Corp, magari incidendo anche sulle considerazioni relative al mercato degli investimenti ad impatto sociale.

Guardarsi intorno non guasta.
Ho appreso dell'inclusione delle B-Corp nella Legge di Stabilità mentre mi trovo in East Africa per una missione finalizzata a sviluppare business con impatto sociale nei settori dell'agricoltura, delle energie rinnovabili, dell'acquacoltura e della trasformazione di prodotti agricoli. Un settore in cui il contributo delle nostre NGO è stato, ed è, fondamentale, ma che oggi tende a svilupparsi eminentemente in forma di impresa.

E questo cosa c'entra con le B-Corp? C'entra, eccome, perché basta farsi un giro per il mondo, magari partendo dalle economie meno strutturate, per scoprire che l'approccio ai nuovi modelli ibridi di business è molto più diffusa di quanto si immagini. Ho incontrato giovani imprenditori, locali ed "occidentali", incubatori d'impresa, finanziatori ed investitori (anche italiani …) che, senza fare troppe teorie ma badando al sodo, hanno ben chiaro questo modello di impresa, basato su finalità di beneficio comune, operando in modo responsabile, sostenibile e trasparente, magari coinvolgendo nel capitale la comunità locale, oppure prevedendo lo svolgimento di attività collaterali volte ad elevarne il livello di benessere collettivo e prefiggendosi anche lo scopo di avviare la misurazione dell'impatto sociale. Ovviamente, distribuendo utili. Magari con un obbligo iniziale di reinvestimento nelle attività sociali (in fondo sono pur sempre delle start up che hanno bisogno di consolidarsi nella fase iniziale) oppure con un cap alla distribuzione, secondo il modello delle low profit. E la cosa che più colpisce è che le persone coinvolte in questo settore che abbiano meno di trent'anni, non mettono neanche in dubbio che queste debbano essere attività imprenditoriali for profit, così come non dubitano per nulla che il modello della ricchezza condivisa sia intrinseco in questa forma di gestione dell'impresa. Niente di più vicino al prospettato modello delle B-Corp.

Una connessione con gli investimenti ad impatto sociale
La novità della B-Corp impone anche una breve parentesi sul tema degli investimenti impact. Tema su cui oggi si è aperto un altro dibattito in Italia riguardo alla natura, filantropica o meno, che questi investimenti debbano avere. Ora, senza prenderla troppo larga e focalizzandosi sulle modalità di investimento che potranno essere funzionali al sistema delle B-Corp, appare evidente che gli investimenti con finalità sociale, sia in forma di prestiti che in forma di capitale, trovino qui un terreno adeguato e fertile per potersi sviluppare.

Sono certo che in queste ore, tutti quegli operatori che stanno lavorando in Italia alla costituzione di veicoli di investimento ad impatto sociale siano in fermento per capire quale destino avrà la disciplina delle B-Corp, poiché rappresenta un ambito ideale per sviluppare queste modalità di investimento, non filantropico, finalmente in grado di essere remunerato anche per gli investimenti nel capitale sociale.

E ciò rappresenterebbe anche la conferma di quale sia la vera natura degli impact investment che, avendo ad oggetto attività che generino un beneficio comune alla collettività producendo un impatto sociale misurabile, a prescindere dalla natura giuridica dell'ente su cui si investe, fanno ancora una volta prevalere il "cosa fai" rispetto al "chi sei".

E quindi, ben vengano le B-Corp a dare una mano allo sviluppo di questo settore e a facilitare il lavoro di quei pionieri che, fra mille difficoltà, stanno contribuendo a lanciare i sistemi di investimento ad impatto nel nostro Paese.

E adesso?
In attesa di vedere se, e come progredirà il cammino delle B-Corp nel nostro ordinamento (la norma incorporata dal maxi-emendamento della legge di Stabilità, dopo l’approvazione in prima lettura al Senato con fiducia, si appresta a passare al vaglio della Camera dei deputati) credo ci si debba auspicare che il mondo del Terzo Settore colga gli spunti che vengono dall'esterno (rammentiamo, a scanso di equivoci, che si sta commentando una novità che riguarda il mondo delle società commerciali) e cominci a considerare che i temi dell'innovazione che porta alle ibridazioni con le regole del diritto societario e della distribuzione degli utili non sono demoni da combattere in maniera apodittica. Al contrario queste innovazioni e questi nuovi modelli di business, sempre più diffusi nel mondo, devono essere fonte di ispirazione anche per fare in modo che la nostra imprenditoria sociale possa essere, da un lato, competitiva nei mercati che ben conosce e che oggi attirano sempre più competitor for profit, dall’altro non resti bloccata ai nastri di partenza per le rigidità e incapacità di attrarre investitori, restando fuori dai nuovi mercati con valenza sociale ed inclusiva che si stanno affermando a livello globale.

Un personale rammarico che manifesto da tempo ogni qual volta mi capiti di dover ragionare sulla disciplina dell’imprenditoria sociale italiana, perché trovo che sia un peccato sprecare le storiche capacità e competenze sviluppate nel corso dei decenni dalle imprese sociali che però, oggi, anche di fronte alle più recenti novità che non riguardano il Terzo Settore, rischiano di trovarsi nuovi competitor nelle proprie e tradizionali aree di operatività. Il rammarico cresce quando penso a tutto il tempo sprecato fino ad ora nel percorso di riforma del settore, quasi come se non fosse una reale esigenza e se il percorso di necessario rinnovamento non dipendesse (anche) dalla inadeguata e vetusta normativa.

Non è escluso, però, che questa accelerazione impressa dalla possibilità di introdurre a breve nel nostro ordinamento le B-Corp porti con sé un benefico scuotimento del mondo del Terzo Settore. Se a breve dovessimo assistere ad una smossa del percorso di riforma del nostro non profit imprenditoriale, allora il fulmine a ciel sereno avrà in qualche modo contribuito a colpire nel segno del progresso e dell’innovazione.

Chissà che sotto l’albero di Natale non ci sia qualche sorpresa, magari proprio per l’impresa sociale!

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