Economia

L’impact investing piace ai giovani paperoni

Cresce a ritmo serrato la domanda di investimenti a impatto sociale. Un mercato che oggi nel mondo vale 60 miliardi di dollari ma in pochi anni potrebbe salire a 500 miliardi e in Italia passare da una stima tra 1/ 4,8 miliardi per il 2017 a 4,2/8,4 nel 2020

di Redazione

Un occhio al portafogli e uno al cuore. Non è strabismo, ma è la constatazione di una tendenza sempre più marcata che vede gli investitori interessati non solo al profitto, ma anche al miglioramento del pianeta. Stiamo parlando di Impact investing (locuzione coniata quasi dieci anni fa dalla casa di affari JpMorgan Chase e dal Rockfeller Institute) ovvero: dell’investimento in aziende, organizzazioni e fondi con la precisa intenzione di generare un impatto sociale e/o ambientale, oltre che il ritorno finanziario. Un mercato che ha la potenzialità di sbloccare significative somme di denaro privato da affiancare alle risorse pubbliche e filantropiche per affrontare le sfide globali sempre più pressanti.
Organizzazioni ad hoc come la Global Impact Investing Network (Giin ) monitorano il fenomeno che sembra interessare soprattutto i Millenials – coloro che detteranno legge nei mercati del prossimo futuro.

Secondo l’ultimo World Wealth Report di CapGemini, i ricchi del mondo con un patrimonio di almeno un milione di euro si rivolgono sempre più a investitori professionali con una specifica competenza nell’impact investing. Globalmente, il 31% dei portafogli di questi paperoni già si basa sul concetto di “guadagno sociale” e circa la metà di essi vuole aumentare la quota di impacting nei prossimi due anni.
Interessante anche osservare come l’età anagrafica incida: guardando agli under 40 la percentuale di investitori etici diventa del 40% e quella di chi vuole aumentare la sua quota in questo ambito arriva al 64%. Un mercato che corre ma che, essendo appena nato, globalmente è ancora molto piccolo.
Lo stesso Giin stima che valga appena 60 miliardi di dollari – su asset under management totali di 500 trilioni. Ma, come precisa il Monitor Institute di Deloitte, se solo l’1% di questo patrimonio fosse investito in modo etico, il valore del comparto salirebbe rapidamente a 500 miliardi. Il che lascerebbe ancora ampio spazio di crescita.

In Italia, secondo le stime più accreditate, l’impacting varrà tra 1 e 4,8 miliardi nel 2017 e tra 4,2 e 8,4 miliardi nel 2020. In Italia e nel mondo la microfinanza rappresenta i due terzi del totale degli investimenti a impatto. Il microcredito – un’invenzione del bengalese economista e premio Nobel della pace Muhammad Yunus – si è evoluto e ha assunto forme diverse nel tempo, dal crowfunding al marketplace lending, che ne sono derivazioni più sofisticate e moderne. Il concetto di base è simile: ovvero finanziarie piccole cifre all’economia reale, a microimprese che non avrebbero altrimenti accesso alle forme tradizionali di credito (come quello bancario) né alle alternative, come obbligazioni o quotazione in Borsa, non sostenibili economicamente senza massa critica. In comune queste forme di microcredito hanno anche la caratteristica di impattare sulla società: un impatto facilmente misurabile attraverso i numeri delle aziende finanziate, da quelli di bilancio a quelli delle nuove assunzioni.

Il marketplace lending finanzia l’economia reale e garantisce agli investitori un prodotto di investimento di elevata qualità: i borrower sono altamente solvibili, in quanto il merito di credito viene valutato in base a parametri quantitativi e qualitativi. Il rischio è dunque controllato e, in caso di default, ci si avvale anche dell’intervento del fondo di garanzia che rimborsa il prestatore.

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