Economia

L’impact investing e l’acqua cheta

Il tema degli investimenti ad impatto è uscito dai margini, contaminando il dibattito sullo sviluppo del modello di welfare. Grazie ad un paziente lavoro di advocacy, lentamente, come l’acqua cheta, ha fatto saltare i ponti normativi e spesso culturali che ne impedivano il corso

di Federico Mento

Un noto adagio popolare recita “acqua cheta rovina i ponti”. La figura retorica è nota ed auto-evidente. Ma cosa centra questo antico detto con l’impact investing? Lo scorso 29 maggio, presso la sede di Fondazione Con il Sud, si è tenuta la presentazione del Fondo SI-Impact, promosso da SEFEA, l’associazione europea delle principali banche ed istituzioni finanziarie etiche. Come ha ricordato nell’intervento conclusivo Mario Calderini, negli ultimi sei mesi, una serie di iniziative hanno animato il settore degli investimenti ad impatto. Se la dinamica di crescita del mercato impact, sino ad oggi, si era manifestata in forma stromboliana, con esplosioni subitanee, ma di scarsa magnitudo, l’attuale fase sembra orientarsi verso prospettive di scala decisamente differenti. Pensiamo, ad esempio, all’iniziativa di Cariplo, oppure al lancio dell’Impact Banking di Unicredit. Il paziente lavoro di advocacy, lentamente, come l’acqua cheta, ha fatto saltare i ponti, normativi e spesso culturali, che ne imbrigliavano ed impedivano il deflusso.

Al di là di alcuni settori minoritari, più o meno rumorosi, il tema degli investimenti ad impatto è uscito dai margini, contaminando il dibattito sullo sviluppo del modello di welfare. Possiamo affermare che alcune grossolane semplificazioni – la finanza rapace che divora le anime candide del Terzo Settore – abbiano lasciato spazio a riflessioni “dense” e molto puntuali, sia sui rischi che le opportunità impact. Il dibattito in occasione della presentazione del fondo di SEFEA, a mio avviso, trasferisce questa maturità di pensiero, che coinvolge i differenti portatori di interesse. Penso, ad esempio, alla posizione del Presidente Borgomeo, che ha scelto di coinvestire parte del patrimonio nel Fondo in una prospettiva sperimentale, per comprendere se la leva finanziaria riesca davvero a far “lievitare” l’impatto delle organizzazioni. Oppure, a quanto espresso da Stefano Granata: passare dalla cultura rendicontativa, nella quale non c’è spazio per l’errore, alla cultura generativa, dove l’errore, il fallimento, si trasformano in apprendimenti per il futuro. Ho trovato, poi, molto convincente la posizione di Sergio D’Angelo rispetto all’effetto distorsivo dei modelli di affidamento dei servizi di welfare, che spesso hanno ridotto le organizzazioni a meri prestatori d’opera, smarrendo la spinta ideale che ne aveva determinato la nascita. La leva finanziaria consente di rompere quel ciclo vizioso, liberando le organizzazioni ed aprendole ad intraprendere nuove strade, ove la sostenibilità conduce all’autonomia, di azione e soprattutto di pensiero.

Raccolgo, infine, l’indicazione di Calderini sulla centralità dell’infrastruttura di misurazione, l’unica in grado di garantire l’effettivo allineamento tra gli obiettivi di rendimento e quelli di impatto, smascherando le operazioni di maquillage di sparuti lupi intenzionati a travestirsi da agnello. Come ho scritto in passato, la sfida si gioca sulla capacità di assottigliare la distanza tra investitori ed organizzazioni, i primi uscendo dalla logica del prodotto finanziario “preconfezionato” in altri settori produttivi e trasportato nel contesto del Terzo Settore, i secondi lavorando sulla cultura dell’organizzazione, investendo sulle competenze interne, preparando i passaggi generazionali, migliorando i processi interni e rafforzando la propria accountability.

C’è molto ancora da fare, perché l’acqua cheta non torni ad essere stagnante.

L'autore è CEO di Human Foundation

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