Economia
L’illusione ottica del ritorno dello Stato padrone
L'intervento del segretario generale di Fondazione Italia Sociale: «Abbiamo bisogno di promuovere forme distribuite di esercizio del potere, in alternativa alla burocrazia top-down. Il tema è sempre più importante a causa del divario tra società civile e istituzioni pubbliche. Un divario che il ritorno dello Stato come demiurgo non è certo in grado di colmare»
Quattro crisi globali in meno di quindici anni. Erano decenni (almeno dagli anni Settanta) che il mondo non assisteva ad una concatenazione di eventi di questa portata sistemica. Quattro crisi dalle implicazioni profonde: la grande recessione scatenata nel 2008 dalla bolla dei mutui subprime, la crisi dell’eurozona nel 2012, la pandemia del 2020 e ora gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina. Tutti eventi convergenti nell’invertire la tendenza di un progressivo ridimensionamento del ruolo dello Stato.
Per più di un trentennio — in pratica l’arco di vita di un’intera generazione — è prevalsa un’ideologia fondata sulla funzione dominante dello scambio di mercato. Nella sua semplicità, le menti sono state conquistate dall’idea che per ogni problema, non solo in ambito economico ma anche sociale, sarebbe stato possibile trovare una soluzione efficiente affidandosi al libero gioco della domanda e dell’offerta. Meno lo Stato si intrometteva meglio era: considerato ormai broken, a pezzi, ad esso veniva riservato un ruolo secondario. Solo dall’iniziativa privata, e dall’innovazione collegata alla capacità imprenditoriale, ci si poteva aspettare una risposta all’altezza della complessità del nostro presente. Questa è stata a lungo la convinzione dominante.
Poi, di colpo, è stato un susseguirsi di emergenze che hanno riportato lo Stato al centro della scena. Le quattro crisi hanno fatto emergere i limiti dei poteri dei mercati. I poteri pubblici sono stati richiamati all’azione. Malgrado tutto, è tornato ad essere evidente che per affrontare crisi globali l’autorità dello Stato serve: altrimenti non sarebbe possibile il salvataggio di banche e istituzioni finanziarie, sussidiare aziende in difficoltà, contrastare la diffusione di epidemie, affrontare le conseguenze di una guerra alle porte di casa.
È indiscutibile l’inversione di rotta rispetto ai tre decenni precedenti, quando, a partire dagli anni di Reagan e Thatcher, si è imposta la predicazione delle virtù benefiche dello small government. In termini culturali la discontinuità è notevole. Ma quindi il pendolo è davvero tornato a muoversi in direzione della politica e dell’azione pubblica? Si è veramente aperto un nuovo ciclo decennale che ha riassegnato i ruoli nella secolare disputa tra Stato e mercato? È quella del big government la prospettiva che ci si apre dinanzi per i prossimi anni?
Mi sembra improbabile. Se è vero, infatti, che oggi il potere dell’autorità pubblica appare di nuovo centrale — grazie a piani straordinari di intervento e di rilancio, ad ingenti investimenti di risorse pubbliche, all’esercizio di poteri di regolazione che possono condizionare pesantemente sia la vita delle persone sia le dinamiche economiche, come il lockdown insegna — è un’illusione ottica che la complessità sociale possa tornare a essere governata da un’azione pubblica onnipresente e autocentrata. Lo scenario è del tutto nuovo e richiede di archiviare la logica secondo cui il potere oscilla necessariamente tra il polo dell’azione pubblica, da un lato, e il polo del potere dei mercati, dall’altro, come gli unici due attori che a turno si contendono la scena. Nessuno dei due, infatti, è riemerso indenne dalla crisi di legittimità da cui sono stati profondamente colpiti. A rigenerare un clima di fiducia sociale non basta né l’esercizio dell’autorità pubblica né il senso di urgenza che scaturisce dalle emergenze. Serve, invece, ridare spazio e riconoscimento alle energie sociali, ripensando il rapporto tra attori socio-economici e pubblica amministrazione, nella prospettiva di modelli di cooperazione basati sulla condivisione di finalità pubbliche e sulla co-determinazione, dove ogni singolo attore (pubblico e privato) apporta le proprie competenze e specificità nella produzione di valore condiviso.
Per rigenerare fiducia sociale serve una visione pluralista non solo dell’interesse generale, in quanto non coincidente con l’azione pubblica dello Stato, ma anche dell’agire economico, riconoscendo il ruolo delle organizzazioni della società civile in quanto capaci di produrre beni e servizi per rispondere a bisogni che altrimenti rimarrebbero insoddisfatti. È per questo motivo che il tema dell’“amministrazione condivisa” è cruciale. Perché è un modello di relazione tra pubblica amministrazione e organizzazioni non profit in cui la responsabilità di produrre soluzioni a problemi di interesse generale viene svincolata dalla competenza esclusiva dell’autorità pubblica, per diventare invece una questione di collaborazione trasversale tra una pluralità di soggetti ugualmente legittimati a contribuire all’inquadramento delle questioni e all’individuazione delle soluzioni. Abbiamo bisogno di promuovere forme distribuite di esercizio del potere, in alternativa alla burocrazia top-down. Il tema è sempre più importante a causa del divario tra società civile e istituzioni pubbliche. Un divario che il ritorno dello Stato come demiurgo non è certo in grado di colmare, malgrado quattro crisi globali lo abbiano riportato in sella.
Nella foto: Palazzo Chigi, sede del Governo – Ag. Sintesi
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