Mondo
Lilian Thuram. «Il razzismo? Il modo di giustificare lo sfruttamento»
La nuova vita dell'ex difensore francese raccontata in un'intervista con il direttore tecnico della Nazionale italiana di tiro con l'arco ed ex ct della nazionale italiana di pallavolo. Oggi scrive libri e vorrebbe cambiare il mondo
Ho dialogato con un atleta con cui condivido le grandi emozioni che lo sport regala, poiché veniamo entrambi da quel mondo lì, e con un uomo curioso che, dopo aver giocato a calcio diventando Campione del Mondo, ha scritto due libri, cita Einstein e ha chiamato suo figlio con il nome di un Faraone nero. Ho dialogato con un amico con cui condivido la passione per mappe geografiche e mappamondi, che qualcosa vorrà pur dire. Ho dialogato con un antropologo che, come me, ama ciò che questa scienza può insegnare agli umani e con un filosofo con il quale condivido una certa visione del mondo. Ho dialogato con un politico che questo mondo vorrebbe cambiarlo, raddrizzarlo o forse capovolgerlo, uno che voterei domani. Li ho trovati tutti e sei nel cervello, nelle parole e nel cuore di Lilian Thuram. Ho dialogato con un grande essere umano.
Io allenatore, tu atleta. Io bianco, tu nero. Io nato a Torino, tu a Guadalupa, Isole Antille. Portiamo dentro storie diverse. Che storia racconta Guadalupa?
Guadalupa racconta la storia del mondo intero. Una storia violenta, purtroppo, che sostiene che alcune persone siano più “legittime” di altre. Da Guadalupa sono passati Spagnoli, Inglesi, Francesi, mercanti di schiavi che volevano solo esercitare un diritto: l’accesso alle risorse economiche, alle materie prime, alla ricchezza. Il razzismo si fonda proprio su quel principio di legittimazione.
Che tu fossi nero lo hai scoperto quando sei arrivato a Parigi, a nove anni.
Sì, a nove anni altri bambini hanno raccontato anche a me la storia del mondo. I miei compagni di classe mi chiamavano Noiraude, il nome di una mucca nera di un cartone animato un po’ stupida al confronto della sua compagna bianca. Fu la mia prima ferita.
A nove anni i miei compagni di classe mi chiamavano Noiraude, il nome di una mucca nera di un cartone animato un po’ stupida. Fu la mia prima ferita
Il razzismo è una costruzione intellettuale che si tramanda di generazione in generazione. Cosa si può fare?
È uno sbaglio pensare al razzismo solo come a una conseguenza del colonialismo o della schiavitù. La prima cosa da fare è capire il perché. C’è stato un momento in cui l’Europa ha potuto decidere che l’America fosse cosa propria, che Guadalupa o che uomini che vivevano in Africa lo fossero altrettanto. Perché? Solo per legittimare un sistema economico! Ed è ancora così. Il razzismo è una sorta di doping dell’economia. Permette di accelerare e legittimare l’accesso alle risorse ed è un discorso che suona perfetto per giustificare questo tipo di furto.
È possibile allora una decostruzione del razzismo? Lo può fare la scuola, per esempio?
Quando vado nelle scuole europee e chiedo: “Chi era Cristoforo Colombo?” tutti hanno una sola risposta: “L’uomo che ha scoperto l’America!”. Ma nel 1492 vivevano già in America milioni di persone, rappresentanti di più di duemila culture diverse. La storia dell’America non inizia certo con Colombo. E se poi fosse stato preceduto da qualche esploratore vichingo, asiatico o africano? La scuola in Europa racconta una storia che serve a legittimare uno sfruttamento economico che ancora oggi esiste, più o meno come ai tempi del Colonialismo. Bisogna cambiare il modo di raccontare la storia e cambiare il modello economico.
Dunque è cambiando il modello economico che si vincerà il razzismo?
Certamente! Pensa ai Paesi membri del consiglio di sicurezza dell’Onu. Sono i paesi che dovrebbero garantire la pace nel mondo, giusto? Ma in realtà sono quelli che vendono le armi al mondo e che orientano il business del pianeta. Noi chiudiamo gli occhi, però sappiamo che la ricchezza del mondo si trova in un certo numero di Paesi poveri sfruttati da pochi altri che, grazie a quello sfruttamento, sono ricchissimi. L’economia struttura il modo di pensare il mondo, ma il sistemo economico in cui viviamo è uno sbaglio clamoroso per tutti. Le difficoltà economiche di una famiglia italiana miglioreranno forse lasciando morire in mare tutti i migranti? La colpa sarebbe dei migranti? Stiamo scherzando?
Tu ed io abbiamo difeso nel mondo dello sport i colori della nostra nazione. Io 134 volte sulla panchina della nazionale di pallavolo, tu 142 volte con la maglia della Francia. Che cosa è per te la Patria?
Posso dirti che cosa non è. Non è un sistema chiuso di cui devi difendere a tutti i costi dei confini. È come quando giochi: ami così tanto la tua squadra che vuoi che diventi migliore, più forte e sai che, per riuscirci, devi amarla e criticarla allo stesso tempo. Se non riesci a essere critico non la farai crescere. La Patria non c’entra con i confini. La Francia ha costruito la sua ricchezza andando a rubare fuori dai propri confini. Oggi chiudiamo l’ingresso a persone che vengono da altre parti del mondo, ma quella porta rimane invece aperta quando si tratta di uscire. Quanti Francesi, quanti Italiani vivono in altri Paesi? Quante imprese italiane e francesi fanno business in giro per il mondo? La Patria di ogni uomo e di ogni donna dovrebbe essere il pianeta Terra. E dovremmo preoccuparci di ciò che sta succedendo al Pianeta, come il clamoroso cambio di clima che stiamo osservando.
142 presenze con la Francia, solo 2 gol. Entrambi in una semifinale di un Mondiale. L’immagine che la Francia aveva di te è cambiata quella sera? Le Pen diceva: “troppi neri in questa squadra”. Due gol possono cambiare la percezione di un essere umano? Lo sport ha questo potere o è una cosa troppo grande da chiedere, soprattutto, agli sportivi?
Lo sport ha un potere incredibile. Certamente le persone hanno cambiato il modo di vedermi e se ho oggi ho una Fondazione è grazie a quei gol, a quel Mondiale che poi abbiamo vinto. Lo so bene. Già quando giocavo vedere la maglia con il mio cognome negli spogliatoi mi sembrava uno scherzo. Mi sembrava incredibile. Poi ho capito che era anche una grande responsabilità. Credo però che gli atleti dovrebbero conoscere meglio la storia dello sport. Sarebbero più consapevoli del fatto che tanti di loro hanno letteralmente cambiato il mondo. Un esempio? Muhammad Ali.
Cinquanta anni fa i pugni guantati di nero di Tommie Smith e John Carlos. Oggi la protesta lanciata da Colin Kaepernick, giocatore di football dei San Francisco 49ers, che si inginocchiava durante l’inno americano in difesa dei diritti dei neri. Kaepernick ha solo 30 anni, ma dal marzo 2017 nessuna squadra gli ha proposto più un contratto ed è diventato testimonial per la Nike. È un compromesso inevitabile?
Colin ha fatto molto bene ad accettare la proposta della Nike e la Nike ha fatto molto bene a chiederglielo. Gli sportivi hanno una visibilità planetaria. Se trovano il modo di poter parlare a tante persone è doveroso che lo facciano. Con qualunque mezzo.
Spesso mi dicevano: “Sei un calciatore, sei pure nero. Zitto e gioca!”
Il 6 settembre 2006 suscitasti molte polemiche quando invitasti allo stadio (a vedere Francia-Italia) 80 persone, espulse dall’allora ministro degli Interni francese Nicolas Sarkozy da uno stabile in cui vivevano illegalmente. “I calciatori devono giocare a calcio”, disse Philippe de Villiers, del partito Mpf di estrema destra.
Spesso mi dicevano: “Sei un calciatore, sei pure nero. Zitto e gioca!”. Nel Colonialismo era: “Zitto e lavora!”, ma la stessa cosa può valere per una donna maltrattata o per un omosessuale discriminato. Il concetto, l’idea alla base, è sempre la stessa: “Zitto, fai quello che devi e non ti lamentare. Perché noi siamo superiori a te e se parli troppo potremmo anche usare la violenza…”. È una minaccia latente, un ricatto. Ma è la storia. Infatti più uomini hanno ammazzato donne del contrario e più bianchi hanno ammazzato neri del contrario.
Nel 2010 hai scritto “Le mie stelle nere” e poi “Per l’uguaglianza” (Add editore). Citi un tuo pantheon di uomini e donne di colore che hanno combattuto per quell’uguaglianza. L’ultimo è Barak Obama, che definisci “la stella della speranza”. Che cosa mi dici otto anni dopo?
Ti dico che tante persone non hanno accettato che il presidente degli Stati Uniti fosse nero e che si esprimesse, dalla sua posizione di politico fra i più potenti al mondo, per l’uguaglianza. Perfino il Ku-Klux Klan è nato proprio quando i neri avevano ottenuto qualche diritto in più. L’uguaglianza è la cosa che da più fastidio ai razzisti. Così, nel novembre 2016, i sostenitori di Donald Trump (e del sistema di valori che Trump rappresenta) non hanno voluto correre un altro rischio. Dopo un nero, una donna. Sarebbe stato troppo.
Volevi cambiare il mondo. Ci stai riuscendo? Sei felice?
Ci sono molte persone che vogliono cambiare il mondo, ma non possono dirlo alla televisione, alla radio. Io posso farlo, grazie alla mia Fondazione e alla notorietà che mi ha dato il calcio. Sono molto felice. Ognuno di noi deve poter essere utile. Dovremmo però provare a essere utili senza aspettare di essere famosi. Bisogna ringraziare chi lo fa, nell’anonimato.
C’è stato un allenatore che ti ha insegnato qualcosa in più degli altri?
Carlo Ancelotti. Ho imparato tanto dal suo atteggiamento, dalla sua tranquillità. Non aveva mai bisogno di sottolineare che lui fosse il capo, ma nessuno lo metteva in dubbio. In un mondo in cui tutti pensiamo di riuscire da soli, lui voleva dimostrarci che abbiamo bisogno gli uni degli altri e che abbiamo bisogno di ascoltare, soprattutto le persone che sono in difficoltà.
L’Italia di oggi non mi piace perché l’Italia che mi aveva accolto era un Paese dove le persone accettavano, anzi amavano, la complessità e le differenze. Voi non siete così
Sei molto legato all’Italia. Come ci vedi, in questo momento, dal tuo osservatorio di Parigi?
Amo l’Italia. Ci sono nati i miei figli e ho dovuto perfino spiegare loro che, con un padre che giocava nella Francia, non era opportuno tifare Italia nelle partite contro di noi! Però, come dicevo prima, quando ami una squadra devi essere duro. E io sono duro e triste. L’Italia di oggi non mi piace perché l’Italia che mi aveva accolto era un Paese dove le persone accettavano, anzi amavano, la complessità e le differenze (dai dialetti al cibo, dall’arte all’industria). La strada che sta percorrendo l’Italia è pericolosa e tutto questo odio, non riesco proprio a capirlo. Voi non siete così e se ciò che sta accadendo è frutto di una minoranza, bisogna stare molto attenti perché una minoranza può portare la maggioranza alla catastrofe. È già successo.
da Avvenire del 28 ottobre
*Mauro Berruto è un allenatore di pallavolo italiano, attualmente direttore tecnico della Nazionale italiana di tiro con l'arco
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