Economia

L’identikit delle fondazioni italiane

Nel corso della ventesima assemblea Efc, un focus sulle realtà del Belpaese

di Maurizio Regosa

Lottare contro la povertà. Creare occasioni: un titolo bello e impegnativo per la ventesima assemblea annuale dell’Efc, l’European Foundation Centre, che si sta svolgendo a Roma in questi giorni (domani la chiusura). Una tre giorni di dibattito e di confronto, di analisi delle strategie e delle buone pratiche che – a livello mondiale – stanno affrontando la difficile congiuntura economica. Presenti, tutte le principali fondazioni del pianeta, oltre al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (in foto metre stringe la mano a Gerry Salole, direttore generale dell’European  Foundation Centre).

Quale presente per le fondazioni italiane?

Il focus sulle fondazioni italiane, moderato da Gian Paolo Barbetta della Fondazione Cariplo e al quale hanno partecipato Stefania Mancini (Assifero), Stefano Marchettini (Acri), Marco De Marie (Compagnia di San Paolo), Ruggero Bodo (Sodalitas) e  Stefano Manservisi (della Commissione Europea), non ha avuto solo lo scopo di disegnare la mappa fondazionale del Belpaese. Certo nel corso del dibattito sono stati forniti alcuni numeri (secondo la più recente indagine ufficiale, dell’Istat, che però è del 2005) e si sono delineate le principali tipologie delle fondazioni attive in Italia. Soprattutto però si è cercato di dar conto di un’evoluzione (a partire dalla legge Amato, del 1990) e di una prospettiva. Una evoluzione che ha significato una assunzione di consapevolezza (non è più tempo di agire da soli, occorre fare rete, anche tra fondazioni – come ha ricordato Mancini) e fatto registrare la creazione di nuovi soggetti come le fondazioni di comunità. Poche per il momento (in tutto sono 25, una sola a Meridione, sostenuta dalla Fondazione per il Sud), le fondazioni di comunità sono già in grado di caratterizzarsi come un nuovo modo di intercettare le esigenze dei territori. Giacché il punto, come ha ricordato Marchettini, è proprio la capacità di promuovere il cambiamento, svolgendo al meglio la propria responsabilità sociale e raggiungendo il più alto tasso di incisività possibile. Aumentare l’impatto delle proprie azioni significa anche mettere in moto sinergie, mobilitare le risorse dei territori (anche in termini di cittadinanza attiva), creare condizioni migliori per affrontare le grandi sfide dell’oggi (dall’inclusione sociale al contrasto alla povertà, appunto).

Un futuro da progettare

Nel dibattito sono però emersi anche passaggi in qualche misura critici. Che probabilmente necessiteranno di una analisi approfondita. Uno lo ha sottolineato Marco De Marie: l’universo fondazionale si è andato arricchendo – e questo è un bene – ma sta vivendo una stagione in qualche modo disordinata (e questo è meno positivo). Si pensi alle fondazioni create da soggetti pubblici (ad esempio le società di servizi a capitale pubblico). Soggetti che operano per il bene comune – come le fondazioni filantropiche – ma che in qualche modo sono legati ai poteri locali. Un panorama variegato quello delle fondazioni italiane (attraversato da una per fortuna sempre meno forte spinta individualistica, ancora in cerca di una rappresentanza organica) che, ha concluso Manservisi, deve porsi due obiettivi prioritariamente. E cioè l’internazionalizzazione (quale contributo possono dare le fondazioni italiane almeno a livello europeo) e l’adozione di un’ottica di partnership anche con la Comunità europea.

In allegato l’intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

 


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA