Licenziare, brutta parola. Non etimologicamente ma per come viene usata e percepita nel senso comune: mandare a casa qualcuno dal lavoro. In tempi di crisi, un’esperienza che drammaticamente tocca tante, troppe persone. E fa paura, molta. Perché si associa alla perdita del sostentamento primo che una persona ha: il lavoro, il reddito da lavoro. Che spesso già non basta a vivere dignitosamente, specie per chi ha famiglie con molti figli e pochi redditi, figuriamoci quando viene a mancare.
Ma non si può ridurre il licenziamento, come tutto quello che riguarda il lavoro, solo alla dimensione economica. Perché è molto, infinitamente di più. Fra i tanti, autorevoli, sapienti, che spesso lo ricordano, nei giorni scorsi c’è stato anche l’arcivescovo Giancarlo Maria Bregantini: ha detto che occorre educare alla dignità del lavoro. Temo sarà chiamato a dirlo ancora, e ancora, e ancora, se continuano a ripetersi casi in cui è proprio dal come si licenziano le persone che emerge come di dignitoso, in molti casi, del lavoro e dei lavoratori, sia purtroppo rimasto ben poco. Non sempre, ovvio. Ma spesso sì.
Già un licenziamento è un trauma, di per sé. E andrebbe affrontato, da chi lo vive dalla parte del datore di lavoro, con le cautele del caso. Direi quasi con l’umanità minima indispensabile che un licenziamento richiede: è una ferita che si apre, il licenziamento, una storia che si chiude, un taglio netto con ciò che è stato fino a ieri, all’altro ieri. Un cambio di vita imposto, e di prospettiva. Una nuova vita che inizia sotto cattivi auspici. Per cui, se proprio si deve licenziare – Adriano Olivetti diceva che non si deve licenziare mai, nessuno -, bisogna saperlo fare, anche quello. E anche da questo, forse soprattutto da questo, si misura la responsabilità sociale di un’impresa, di un imprenditore. Anzi, delle persone che in quel momento sono l’impresa e l’imprenditore: è bene tornare a parlare di persone, altrimenti, come accade quando si dice “i mercati ci guardano, ce lo chiedono i mercati” per giustificare l’altrimenti ingiustificabile, non si sa più bene con cosa o con chi si ha a che fare. Invece si tratta di persone, che prendono decisioni che riguardano altre persone, che quasi sempre le subiscono senza poterci fare molto.
Mi ha colpito, allora, insieme ovviamente ad altri licenziamenti di cui si parla molto in questo periodo e diventati a ragione un caso nazionale, un articolo con il racconto di un licenziamento: di come sono state licenziate persone nei giorni scorsi da Ubs. Lo hanno saputo quando non sono riuscite a entrare in azienda: i tornelli non le lasciavano passare, hanno pensato (immagino) a un tesserino smagnetizzato, a un problemino da nulla, invece sono state informate che “grazie e arrivederci”, non c’era più bisogno di loro. I loro effetti personali, altra espressione glaciale, erano lì ad attenderli già raccolti da altre mani.
Come saranno state, dentro, quelle persone? Cosa avranno pensato? Facile immaginarlo. Oppure impossibile. Occorrerebbe essere loro, vedere il tornello che non si apre, pensare magari all’ultimo progetto o pratica che avevano lasciato in sospeso sulla scrivania o sul loro pc il giorno prima e di colpo capire che tutto questo non c’è più, non li riguarda più, le strade si separano, “grazie e arrivederci”. E poi pensiamo anche alla simbologia: un tornello che non si apre, uno spazio che non è più accessibile, una sbarra che ti impedisce di avanzare verso quello che consideri un luogo che ti appartiene, o a cui tu appartieni, che fa parte della tua vita…come se ti impedisse di avanzare nel progetto di vita che, fino a ieri, fino a un istante fa, coltivavi nei tuoi pensieri e magari, o probabilmente, non da solo.
Non è la prima volta che accadono cose di questo genere. Tempo, purtroppo, non sarà l’ultima. Si sa di licenziamenti via email, via sms…ma certo il “licenziamento al tornello” da questo momento e a buon diritto si ritaglia il suo spazio di visibilità in questa triste, crudele carrellata, ma possiamo anche chiamarla galleria degli orrori, di come non si dovrebbe, mai, trattare una persona con cui fino a un giorno prima, a un istante prima, c’era un rapporto di lavoro. Che non è mai solo di lavoro, non raccontiamocela: è molto, molto di più, lo sappiamo bene, ma c’è chi lo nega.
Ora, entrando nella sezione del sito di Ubs dedicata alla csr, e in particolare nella sezione dedicata al personale, basta un attimo per vedere raccontata già solo con le immagini tutta un’altra storia: visi sorridenti, sguardi positivi, parole come eccellenza, creatività, talento (tra l’altro mi permetto un consiglio: se sul sito c’è lo spazio per raccontare come si assume, cioè il recruitment, quanto meno per par condicio ci dovrebbe anche essere quello per raccontare il modo in cui si licenzia, anche se capisco che inserire un titolo come dismissal o roba del genere pare brutto in una sezione sulla csr, ma fa molto economia reale). Stridente, a dir poco, il contrasto con la realtà del “licenziamento al tornello”. Come stridente è il contrasto con le parole con cui nel suo comunicato Ubs ha parlato dei 10mila licenziamenti che si appresta a effettuare nei prossimi anni: si dice che verranno adottate le misure per mitigare l’impatto complessivo. Domanda: è col “licenziamento al tornello” che si inizia ad attuare questa mitigazione? Questa è una delle misure previste? E cosa si intende, esattamente, per impatto complessivo? Impatto su cosa, su chi?
Sono già qui che aspetto il bilancio sociale di Ubs del prossimo anno (l’ultimo pubblicato si può trovare a questa pagina): voglio vedere come questa cosa viene raccontata. Se mettono la voce degli stakeholder-dipendenti che si sono trovati a sperimentare il “licenziamento al tornello”: sarebbe molto in linea con una prospettiva di #occupycsr. Voglio vedere se danno modo a questi dipendenti di raccontare come si sono sentiti, cosa pensavano della loro azienda prima, fino a un istante prima, intendo, cioè fino a quando hanno passato il loro badge ripetendo una banale operazione quotidiana e probabilmente senza neppure troppa attenzione, e cosa hanno pensato un istante dopo, quando hanno visto il tornello non aprirsi e sono stati informati del perché. Voglio vedere se chi si occuperà del bilancio sociale il prossimo anno, persone, anche qui, non algoritmi, riterrà che questi siano aspetti che rientrano o meno nella materiality, cioè nelle cose veramente importanti, cruciali, del modo in cui un’impresa integra la csr nel proprio business. Quelle cose, insomma, che devono essere raccontate in un documento del genere. Voglio proprio vedere.
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