Nel centro di detenzione a 210 chilometri da Tripoli vivono 320 eritrei. Molti di loro sono stati respinti nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Samar, Mina, Emanuel e tutti gli altri sono richiedenti asilo costretti a vivere rinchiusi. Senza diritti. I bambini non possono nemmeno andare a scuola. «Vita» è riuscita a incontrarli. Scoprendo che…
da Misurata, Libia
Èpassato un anno dall’ultima visita di un giornalista nel centro di detenzione per migranti di Misurata, 210 chilometri ad est di Tripoli. I fiori finti sulla scrivania del direttore, colonnello Ali Mahmoud Aboud, devono essere gli stessi. Dalla finestra che illumina il suo ufficio arrivano le voci dei detenuti usciti in cortile. Sotto si apre un quadrato di 20 metri per 20. Al centro, materassi e coperte variopinte stesi al sole. Più in là una rete divide due squadre di ragazzi che giocano a pallavolo. Un uomo e una donna assistono alla partita dall’altro lato del quadrato mentre un bimbo si agita con il suo girello rosso. Altri trasportano secchi d’acqua da una fontana nel cortile. Scene di vita quotidiana in un centro che oggi ha 320 “ospiti”, tutti eritrei. Molti respinti. Sono uomini, donne e bambini, dodici, di cui tre nati nell’ultimo anno.
La voce del capo
«Persone che non hanno nulla, fuggite dal proprio Paese, che attraversano il Sudan e il Sahara per arrivare in Libia dove la polizia le cattura, le porta qui e poi non se ne vogliono andare», commenta soddisfatto Ali Aboud, occhiali neri, capelli ribelli, voce tuonante. Per chi non ci crede apre il cassetto destro della sua scrivania e tira fuori due lettere in arabo. Sono le richieste di un gruppo di eritrei, 29 uomini e 8 donne, che non vogliono essere mandati via. «Se escono la polizia li riporta dentro e nel loro Paese non li possiamo mandare», spiega il direttore. A qualcuno però la permanenza non deve piacere se in un angolo dell’ufficio sono buttati in terra alla rinfusa alcuni metri di lenzuola e lembi di stoffa attorcigliati per farne strumenti di fuga dalle finestre esterne. Chiediamo di incontrare gli immigrati ma il timore che sfuggiamo al controllo dei nostri accompagnatori, dipendenti rispettivamente della Direzione della stampa estera e del ministero della Pubblica sicurezza libici, prevale. Così è il direttore a scegliere con chi farci parlare. Solo qualche minuto e compare Mabrat, una bellissima donna eritrea che poco prima era in cortile, in tuta. Ora – il volto incorniciato in un velo variopinto, un lungo caftano nero sul corpo magro – ci racconta la sua storia. Entra in Libia due anni e mezzo fa. Poco tempo dopo la polizia la arresta. «Mi hanno picchiata e caricata su un camion con altri 120 immigrati», racconta. Qui Mabrat sta crescendo i suoi bambini, di 2 e 6 anni. «Di cosa ho bisogno? Che i miei figli possano andare a scuola».
Gli amici in Italia
Chiediamo al direttore se fra gli eritrei ospiti del Centro ci siano anche alcuni dei circa 834 migranti respinti in almeno nove azioni in mare effettuate dal 7 maggio, giorno in cui sono stati ricondotti a Tripoli 230 migranti, al 23 settembre. Ci sono, e Samar, un ragazzo di 29 anni, eritreo, se la ricorda bene l’esperienza. Partito da una zona a un’ora di taxi da Tripoli, racconta: «eravamo 76, ci trovavamo a meno di 30 miglia da Lampedusa ma la benzina e l’acqua erano finite». I soccorsi arrivano solo dopo che qualcuno contatta amici in Italia. «Due imbarcazioni piccole e una grande ci hanno soccorso la sera del quarto giorno che eravamo in mare». Samar descrive quanto fossero malridotti e disidratati, ma una volta sulla motovedetta «l’equipaggio italiano non ci ha aiutato», spiega, «ci hanno perquisito, tolto i documenti, maltrattati». Quello di Samar è il respingimento del 19 giugno di un barcone con 76 persone a bordo fra eritrei, egiziani e algerini. Il ragazzo sostiene di avere un video dei maltrattamenti a bordo registrato sul suo cellulare ma non fa in tempo a mostrarcelo perché il direttore del centro glielo impedisce. Samar forse non sa che anche in seguito, in occasione del respingimento della notte tra il 30 giugno ed il primo luglio scorso, quando il pattugliatore della Marina Militare Orione ha soccorso in mare 82 extracomunitari, quasi tutti eritrei, e li ha poi consegnati ad una motovedetta libica, sette eritrei denunciarono di essere stati «maltrattati» e «picchiati» dai marinai italiani.
Secondo una fonte governativa italiana che preferisce l’anonimato, «generalmente i marinai intervengono quando i clandestini, come nel caso specifico, accorgendosi di tornare in Libia incominciano a ribellarsi e molte volte sono numericamente superiori agli uomini dell’equipaggio».
I fortunati del resettlement
Ora Samar, come gli altri qui, è in possesso di un documento che lo definisce «asyloum seeker» rilasciato dall’Unhcr. Samar sta aspettando di rientrare in un programma per i rifugiati, come è avvenuto per Emanuel e per altri 66 eritrei che, fra pochi giorni, voleranno in Italia nel quadro di un programma di “resettlement”. Oggi Misurata è semivuota, non contiene più 700 persone come quando era dentro Emanuel, uscito a gennaio 2009 dopo due anni di detenzione. «Allora», spiega, dormivamo anche in 20/22 in stanze di 4 metri per 4 e potevamo uscire in cortile solo dieci minuti per tre volte al giorno». Oggi l’accesso al cortile è consentito per tutta la durata della giornata e le visite di funzionari delle ong sono quasi all’ordine del giorno, come ci conferma il Cir – Centro ialiano per i rifugiati di Tripoli.
Tornando in città riceviamo una telefonata. È Mina, una ragazza eritrea che, con il suo amico Stephan, vive nascosta nel quartiere di Sharghià a Tripoli. Sta tentando di partire clandestinamente con un’imbarcazione. Anche lei è «asyloum seeker» ma non è rientrata nel gruppo dei 67 che partirà a breve. Mina ci racconta di essere stata rinchiusa per quattro giorni in un capanno vicino al mare, a pane e acqua, insieme ad altre 50 persone. Erano tutte in attesa che le condizioni del mare migliorassero. Ma è andata male: «Sono nel carcere di Zawia», ci annuncia. A Mina non resta che stringere i denti e sperare in un’altra occasione.
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