Formazione

Libererò le mie bambine dai ribelli

Quando due anni fa irruppero nella scuola e portarono via 139 delle sue allieve, suor Rachele andò nella foresta e si inginocchiò davanti al capo degli uomini del Lra.

di Redazione

Dal 1985 insegno nella Scuola secondaria femminile di Aboke in Uganda, dove sono stata mandata come missionaria comboniana quando non avevo ancora quarant?anni. Ed è dal 1987 che con la gente dal posto e le studentesse viviamo nell?insicurezza. Nel 1989 la nostra scuola fu attaccata una prima volta da un centinaio di ribelli di Kony, il leader del Lord?s Resistance Army (Lra), e dieci nostre studentesse furono portate via. Una di loro non è più tornata, probabilmente è stata uccisa in una battaglia. Il Lra è il principale e più terrificante dei gruppi di ribelli che attaccano i civili per creare terrore nel nord dell?Uganda, con una brutalità indescrivibile, uccidendo e mutilando in modo casuale e puntando soprattutto sui bambini. Il 60 per cento dei suoi ?soldati? sono ragazzini al di sotto dei sedici anni, rapiti, arruolati con la forza, brutalizzati in modo che anche loro siano spinti a torturare e uccidere. E intanto il Lra rapisce anche ragazze, per darle in moglie ai suoi soldati: si calcola che dal 1993 siano stati rapiti più di ottomila bambini, solo metà dei quali sono riusciti a fuggire e a tornare a casa, traumatizzati. Di loro si occupano tre centri di recupero, due a Gulu e uno a Kiryadongo, dove i bambini vengono assistiti, preparati professionalmente, ricongiunti con le loro famiglie.

«Andiamo a morire per le nostre ragazze»
Già dopo il primo attacco del 1989, mentre andavo nel bosco a cercare le mie ragazze, nel dolore, sperimentai il dono di poter essere lì sul posto a condividere la sofferenza della gente. Mai però avrei pensato di vivere ciò che ci è successo due anni fa e che stiamo vivendo tuttora.
La notte tra il 9 e il 10 ottobre 1996, verso le due e un quarto, più di cento ribelli del Lra hanno invaso la nostra scuola, circondato i dormitori delle studentesse, rotto la finestre e portato via 152 delle nostre ragazze, tutte dai 13 ai 16 anni.
Mi è difficile esprimere ciò che noi suore e bambine abbiamo vissuto quella notte. So che quando ho visto quel gran buco nel muro del dormitorio, ho detto a suor Alba: «Io li seguo»; e lei: «Rachele, va?, e che il Signore ti guidi». Ho chiesto poi a un nostro insegnante, John Bosco, di accompagnarmi, e lui: «Sì, andiamo a morire per le nostre ragazze.
Così alle sette di quel mattino, iniziamo la ricerca delle nostre bambine seguendo gli stessi sentieri, attraversando la stessa palude e dopo circa tre ore di cammino raggiungiamo i ribelli che ci ricevono con i fucili spianati. Chiedo al loro capo che per piacere mi ridia indietro le bambine, e lui me lo promette, però prima ci chiede di seguirli. Andiamo con loro e così rivedo le nostre bambine, tutte terrorizzate e con i vestiti strappati. Camminiamo insieme per ore e, dopo varie traversie, verso le quattro del pomeriggio arriviamo finalmente all?accampamento dei ribelli. Qui chiedo al capo dei guerriglieri, un certo Mariano Ociaia, di darmi per favore le ragazze. Lui mi dice che sono 139 e che è disposto a darmene 109, ma che 30 le vuole tenere. Allora mi inginocchio davanti a lui, lo supplico di darmele tutte, di tenere me piuttosto, ma di liberare tutte le bambine. Niente. Devo lasciarle là nelle mani dei guerriglieri, insieme ad altre 20 bambine portate via dai villaggi. Il dolore più grande della mia vita l?ho vissuto là.
Nel frattempo, alla scuola, suor Alba, suor Matilde, le studentesse rimaste e i genitori accorsi vivevano ore di dolore e di angoscia. Quando siamo arrivati noi, verso le undici del mattino dopo, scene di gioia si sono alternate a scene di disperazione: gioia per chi ritrovava le figlie, disperazione per chi le sapeva ancora con i ribelli.
Per i due giorni consecutivi ci siamo mossi a piedi e in bicicletta con i nostri insegnanti per raggiungere ancora i ribelli, ma questi erano ormai andati lontano. Insieme con i genitori, abbiamo cominciato a sperimentare una forza, una determinazione a non scoraggiarci, ma a cercare tutte le vie possibili per riavere le nostre ragazze. Così ci siamo messi in contatto diretto con le autorità militari di Gulu, con il presidente ugandese Museveni, con le autorità religiose, con la Croce Rossa internazionale, con l?Unicef, con l?ambasciata italiana e con altre ambasciate a Kampala, con l?ambasciata sudanese a Nairobi e con varie organizzazioni nazionali e internazionali.
La nostra incessante richiesta era: aiutateci a liberare le nostre figlie, aiutateci a parlare con i ribelli perché ce le restituiscano, aiutateci a parlare con il presidente sudanese Bashir perché dica a Kony di liberare le nostre ragazze. Abbiamo trovato grande cooperazione, ma le ragazze erano sempre con i ribelli.
Anche il Santo Padre, all?Angelus, ha lanciato subito il suo appello ai rapitori perché liberassero le bambine prigioniere. I genitori hanno formato il ?Gruppo Genitori? per lavorare e pregare insieme per la liberazione delle loro figlie.

E abbiamo conosciuto una enorme tragedia
Cosa il Signore ci ha aiutato a compiere in questi due anni e che cosa ci ha insegnato, non è facile formularlo a parole. Erano anni che questi rapimenti di bambini e bambine avvenivano nel Nord Uganda, specialmente nei distretti di Kitgum e di Gulu, ma noi ci siamo mossi e abbiamo incominciato a parlare solo quando siamo stati toccati profondamente di persona. Con i genitori, ci sentiamo di dover chiedere perdono per il nostro silenzio. Nella nostra ricerca delle ragazze, siamo venuti a contatto personale con altri bambini rapiti e poi fuggiti, siamo venuti a contatto con i due Centri di riabilitazione dei rapiti di World Vision e di Gusco a Gulu e i nostri occhi si sono aperti all?enormità di questa tragedia. Ascoltare l?odissea di questi bambini, vedere le loro condizioni fisiche, ci sprona a lavorare con più urgenza per questa causa. Attraverso la nostra tragedia e dolore, siamo venuti a contatto con il dolore di tanti altri genitori, di tanti altri bambini rapiti. L?Unicef di Kampala si è fatta portavoce di questa tragedia, ci incoraggia, ci sostiene e intensifica il suo impegno per la liberazione dei bambini rapiti, e con altre organizzazioni per la riabilitazione di quelli che tornano.
Durante uno degli incontri del gruppo dei genitori, si è deciso di scegliere il primo sabato di ogni mese, come giorno di preghiera e digiuno per la liberazione delle nostre figlie, di tutti gli altri bambini, e per la pace. Si è deciso anche che il Gruppo genitori diventi una ong e comprenda i genitori di altri distretti dove i bambini sono stati rapiti, con lo scopo primario di lavorare per la liberazione di tutti i bambini, perché non avvengano più rapimenti, perché cessi l?insicurezza in Uganda.
Tra metà novembre 1996 e maggio 1997, nove delle trenta ragazze rimaste con i ribelli ritornano: sette sono fuggite da sole in Uganda, due sono state liberate dai ribelli del Spla in Sudan. Ci racconta le loro sofferenze e paure. Ci dicono che sono state addirittura obbligate a uccidere una bambina che aveva cercato di fuggire. Ci dicono che le altre nostre figlie e tanti altri bambini e bambine sono nei campi dei ribelli in Sudan.
Noi intensifichiamo i nostri contatti con il presidente Museveni e altre autorità. Collaboriamo con i mass media per far conoscere questa tragedia e perché qualcuno ci aiuti a trovare una soluzione. Grazie all?interessamento di Museveni, presentiamo la nostra richiesta al ministero degli Esteri iraniano, al presidente sudanese Bashir, a quello sudafricano Mandela, alla signora Hillary Clinton, al segretario generale Onu Kofi Annan, e possiamo anche recarci di persona in Sudan e nei campi di Kony, a cercare le nostre ragazze. Grazie all?Unicef e a Human Rights Watch, la rappresentante dei genitori può recarsi a New York, Bruxelles, Ginevra, Oslo per far conoscere la tragedia. Abbiamo anche collaborato con l?Unicef per la risoluzione sui bambini rapiti che nell?aprile scorso è stata approvata a Ginevra dalla Commissione Onu per i diritti umani: risoluzione che condanna i rapimenti e chiede la liberazione di tutti i bambini.
A oggi, ventuno delle nostre ragazze sono ancora prigioniere nel sud del Sudan, nei campi di Kony, assieme a tantissimi altri bambini. A oggi, continuano in Uganda le imboscate, le uccisioni e i rapimenti. Il gruppo dei genitori adesso, con l?aiuto di Unicef, di Red Barnet e di Avsi, vuole impegnarsi per continuare la riabilitazione e il reinserimento in comunità dei bambini usciti dai Centri di World Vision e Gusco e per aiutare i genitori stessi.

Tre studentesse hanno perdonato i rapitori
Il 10 ottobre scorso, alla scuola di Aboke, abbiamo avuto una giornata di preghiera e di digiuno: era il secondo anniversario del rapimento delle nostre ragazze. Eravamo più di seicento tra studenti e genitori. Per tutti è stata un?esperienza di fede, di guarigione interiore, di perdono e di riconciliazione. Tre delle nostre studentesse rapite e poi tornate hanno dato la loro testimonianza: con semplicità e di cuore hanno perdonato coloro che le avevano rapite e maltrattate e hanno implorato per il ritorno delle loro compagne ancora prigioniere.
Questa tragedia ha cambiato anche me. Ha trasformato il mio rapporto con Dio e con gli altri. In questa tragedia, nella paura, nel dolore grande, nell?incontro con i ribelli, nei viaggi, nell?incontro con i bambini rapiti e con le varie autorità ho sperimentato la presenza di Dio, la sua potenza e la verità della sua parola e delle sue promesse. Lui mi ha dato il coraggio, Lui mi ha dato la forza e la salute, mi ha suggerito le parole da dire, mi ha guidato.
Ho fatto esperienza che ogni persona umana possiede dentro qualcosa di buono. L?ho vissuto in particolare in questi due anni. Il capo dei ribelli mi ha consegnato 109 ragazze, più una bambina del villaggio e mi ha promesso che se Kony avesse detto di sì, lui avrebbe liberato tutte le altre. Tutte le varie autorità che ho contattato hanno mostrato comprensione e collaborazione per la causa. I rappresentanti dei ribelli che ho incontrato a Khartoum si sono mostrati favorevoli alla liberazione delle bambine. Mi sono convinta che si può trovare una soluzione di pace nel dialogo sincero. È cambiato il mio modo di rapportarmi con le studenti. Prima erano le mie studenti, ora le sento come figlie. Prima le prendevo per scontato, ma dopo che ho sperimentato il dolore di averle perdute tutte, tutto è cambiato. La mia stessa vocazione di missionaria comboniana si è molto rafforzata, ma è diventata vera. Ho capito cosa voleva dire Daniele Comboni, fondatore del nostro ordine, quando ai suoi africani diceva: faccio causa comune con voi, le vostre gioie sono le mie e i vostri dolori i miei. È diventato vero per me. Questo fare causa comune nel dolore con le ragazze e i loro genitori, con la nostra gente, lo considero il dono più grande che il Signore mi poteva fare, lo considero una benedizione: davvero vale la spesa dare la vita per gli altri.

a cura di suor Rachele Fassera

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