Non profit

Liberalizzazioni? Avranno successo solo se cambieranno i modelli di impresa

di Carlo Borzaga

Capitalismo, libertà d’impresa e mercato non sono, come troppo spesso si è portati a credere, la stessa cosa, né sono così strettamente collegati da non poter esistere uno senza l’altro. La caratteristica essenziale delle più avanzate economie di mercato è infatti la libertà di fare impresa, mentre il capitalismo è solo una particolare forma di proprietà delle imprese che spesso, ma non sempre e non necessariamente, si dimostra più efficiente di altre. E il mercato è un’istituzione finalizzata a coordinare l’attività di agenti che decidono in autonomia come utilizzare le proprie abilità e le proprie risorse di tempo e denaro. Ciò ha almeno due conseguenze: che la libertà di impresa è una conquista permanente, mentre il capitalismo è contingente e che possono esistere anche imprese che, pur utilizzando per coordinare la loro attività il mercato, hanno finalità e forme proprietarie diverse da quelle delle imprese capitalistiche.
Ampliare gli àmbiti operativi delle imprese, di tutte le imprese, è quindi un modo per favorire la crescita economica e, soprattutto, la capacità dei sistemi economici di soddisfare i bisogni dei cittadini. Ovviamente a condizione che questa libertà non sia utilizzabile contro i “portatori di interesse non proprietari” (come gli utenti o i lavoratori). Questi possono essere protetti, alternativamente o congiuntamente, dalla configurazione concorrenziale del mercato o dalle forme di proprietà e/o dai vincoli cui le varie forme di impresa sono assoggettate o si assoggettano volontariamente (come per esempio, il vincolo alla distribuzione di utili). Da queste convinzioni sono derivate le politiche di liberalizzazione o di privatizzazione. Politiche che però hanno avuto il limite ?che ha contribuito non poco ad alcuni loro insuccessi ? di puntare tutto su regole volte a garantire una configurazione concorrenziale dei mercati.
Se si legge la storia della cooperazione sociale da questo particolare punto di vista, si scopre che essa è stata, tra le altre cose, anche un’esperienza di liberalizzazione, ancora una volta “dal basso”, realizzata ben prima che i governi decidessero di percorrere la strada delle privatizzazioni. E che essa ha prodotto tutte le conseguenze positive solitamente attese, quali aumento e diversificazione dell’offerta di servizi ? con conseguente maggior soddisfazione dei bisogni ? e crescita dell’occupazione in un settore, allora come oggi insufficientemente sviluppato, come quello dei servizi sociali.
Questa lettura del contributo dell’impresa sociale nello sbloccare, già trent’anni fa, un settore d’indiscutibile rilevanza sia sociale che economica e occupazionale, liberalizzando di fatto la produzione di servizi sociali ed educativi senza necessariamente configurare forme di mercato o quasi mercato e agendo più sul lato delle forme d’impresa che su quello della concorrenza, deve essere guardata con attenzione anche oggi. Il dibattito sulle liberalizzazioni ha ripreso forza ed è stato avviato un percorso per muovere mercati bloccati. Ma così com’è stato intrapreso l’approccio resta molto tradizionale, come se non contasse la forma d’impresa che è chiamata ad affacciarsi su questi settori. Di fronte al fallimento del mercato invece questa è la scommessa più importante.
Se i taxisti fossero organizzati invece che in imprese individuali in cooperative proprietarie delle licenze, tanti problemi potrebbero essere affrontati diversamente, seguendo le domande del mercato e mettendo in gioco quel fattore sano che è il rischio del mercato: toccherebbe alla cooperativa scegliere quante licenze prendere in base alla capacità di leggere la domanda.

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