Medio Oriente

Libano, padre Toufic: «Così la mia chiesa si è riempita di sfollati»

Toufic Bou Merhi è parroco dei latini del Sud del Libano. Il convento francescano di Tiro è diventato un centro per sfollati interni: «In 24 ore sono stati lanciati più di duemila attacchi aerei. Un missile è caduto a un chilometro da noi. Ci sono più di 500 morti, tra loro almeno 100 tra donne e bambini», racconta. «Le strade sono chiuse, manca l'acqua e l'elettricità. Non possiamo vivere altre guerre». Intanto le persone continuano ad arrivare: «C’è una marea di gente, non riesco più a contare»

di Anna Spena

Padre Toufic Bou Merhi è libanese, ha 55 anni. È un frate francescano della Custodia di Terra Santa.

 «Sono stato ordinato sacerdote solo nel 1998», dice. Poi sorride e con questa battuta prova a tenere alto il morale, suo e delle oltre 25 famiglie, che insieme fanno più di cento persone, che da ieri sera hanno trovato rifugio nel convento di San Giovanni da Padova, a Tiro, nel Sud del Paese. Padre Toufic è parroco dei latini del Sud del Libano e le sue altre due chiese si trovano a Deir Mimas, a tre chilometri dalla frontiera con Israele – la chiesa dell’Assunta, e a Saida (Sidone) la chiesa dell’Annunciazione. Ha la voce piena padre Toufic, non agita anche se c’è la guerra tutt’attorno. Parla piano, nel suo italiano quasi perfetto: «Ho studiato un anno in Italia», racconta. «Poi l’italiano è la lingua della Custodia di Terra Santa, è il nostro modo di comunicare». Le sue parrocchie sono sostenute dall’associazione Pro Terra Sancta (la realtà ha aperto una campagna di raccolta fondi a sostegno del Paese, attiva per alimentare le attività di distribuzione di medicinali e pacchi alimentari, è aperta per raccogliere gli aiuti destinati alle persone colpite). 

La guerra del giorno dopo

Il Libano da diversi anni sta vivendo una crisi economica e sociale senza precedenti. Ma dopo il 7 ottobre 2023, dopo l’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, la situazione è degenerata. «Fortunati, siamo stati fortunati», è ancora ironico padre Toufic, «la nostra guerra è iniziata l’otto ottobre, un giorno dopo: abbiamo guadagnato un giorno». E dall’otto ottobre «il Paese è cambiato ogni giorno, e ogni giorno va sempre peggio. La gente che vive al Sud ha avuto paura e ha paura. Nel corso di questi mesi chi ha potuto si è rifugiato a Beirut, ma la maggior parte dei libanesi – e dei profughi siriani che vivono in Libano – sono poveri. Non avevano abbastanza soldi e sono dovuti tornare indietro malgrado i bombardamenti, malgrado la situazione non sicura.  Deir Mimas è stata bombardata, anche Saida, e ora anche Tiro. Mentre parliamo le bombe hanno ricominciato a cadere, le posso sentire vicine». 

Duemila attacchi in 24 ore

«In 24 ore sono stati lanciati più di duemila attacchi aerei. Ci sono più di 500 morti, tra loro almeno 100 tra donne e bambini. I feriti non si contano». Israele giustifica gli attacchi dicendo che sono contro Hezbollah, l’organizzazione paramilitare islamista sciita e antisionista libanese, nata nel giugno 1982 e divenuta successivamente anche un partito politico. Nel 1997 Hezbollah è stata catalogata come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e da Israele e nel 2013 l’Unione Europea ha inserito la sua ala militare nel novero delle organizzazioni terroristiche. «Ma dovete capire la situazione», prova a spiegare padre Toufic. «Hezbollah non ha delle caserme, il suo esercito non sta nelle caserme: è una resistenza popolare, chi fa parte dell’esercito vive nella sua casa. Mirare alla gente di Hezbollah significa prendere di mira tutta la famiglia e tutto quello che c’è attorno. Questa è la situazione attuale»

Le chiese aperte

«Ieri sera gli sfollati interni hanno riempito Tiro, ma anche questa città è stata bombardata. Le strade per arrivare a Beirut sono state chiuse e lo sono ancora: c’era un fiume di auto rimaste ferme mentre cercavano di raggiungere la capitale: stiamo parlando di un milione di persone che vive nel Sud del Libano. Parliamo di persone che non hanno nessun rifugio, gente che stava in strada, sotto gli alberi, sulla spiaggia che dà al mare. Non potevamo non aprire il nostro convento, la nostra chiesa. Ma non è un problema accogliere, il problema è gestirla l’accoglienza. Sono persone che hanno bisogno di tutto. Hanno bisogno di acqua, di cibo, di vestiti, di coperte, di medicine. È gente terrorizzata che non sa se tornerà a casa, che non sa se esiste ancora quella casa. Qui manca l’elettricità e manca l’acqua. Noi siamo fortunati perché abbiamo delle cisterne e per ora usiamo quella. Qui possono entrano tutti, il bisogno non ha né religione, né colore».  Ma per sfamare così tante persone servono risorse e personale: al momento il convento può contare sull’aiuto volontario di diversi giovani appartenenti alla comunità cristiana di Tiro.

Abbiamo già visto troppa guerra

«La guerra bisogna mandarla lontana», dice padre Toufic, ed usa letteralmente l’espressione “mandarla lontana”. Forse perché a non essere lontano è il ricordo di quello che le guerre precedenti hanno già fatto al Libano e la consapevolezza che questa volta il Paese non ce la farà. «Una guerra l’abbiamo già vissuta dal 1975 e il 1990. Un’altra poi l’abbiamo vissuta nel 2006, per 34 lunghissimi giorni. In Libano c’è un crollo economico, c’è una situazione finanziaria drammatica. Il Libano non può sopportare un altro conflitto: le persone non resisteranno». Padre Toufic preferisce non parlare delle questioni politiche, a padre Toufic interessa solo aiutare come può: «Sono parroco dei latini del Sud del Libano, e qui rimarrò. Nonostante i bombardamenti, dall’otto ottobre ad oggi, non ho mai mancato di celebrare una messa, neanche a Deir Mimas, a tre chilometri dal confine. Uno dei luoghi più bombardati». Andrà anche la prossima domenica a Deir Mimas per celebrarla? «Andrò anche la prossima domenica. E spero di portare con me un po’ di verdura. Ormai faccio il fruttivendolo, ogni volta che vado a Deir Mimas carico la macchina di verdura e la lascio fuori la chiesa. Chi ne ha bisogno la prende». Intanto nel convento Francescano di Tiro le persone continuano ad arrivare: «C’è una marea di gente, non riesco più a contare».

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