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Libano, il limbo dei profughi siriani

L'emergenza sanitaria, la crisi economica, l'esplosione del 4 agosto che ha distrutto Beirut. La situazione in Libano è sempre più drammatica e a pagarne le conseguenze sono anche il milione e mezzo di profughi siriani, non riconosciuti dallo Stato, che vivono nel Paese. «La loro condizione non è mai stata così precaria», dice Alberto Capanninni, volontario di Operazione Colomba, che vive in un campo profughi a Tel Abbas, nord del Libano. «I bambini non vanno più a scuola, lavorano 12 ore al giorno per guadagnare tre dollari alla settimana»

di Anna Spena

Il Libano ospita, ufficiosamente, un milione e mezzo di profughi siriani. L’ultima stima ufficiale dell’Unhcr risale al 2015. Ma la guerra in Siria continua a mietere profughi oltre che vittime. I rifugiati presenti in Libano non sono riconosciuti dal governo, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui profughi, dunque non riconosce lo status di rifugiato, per questo non esistono campi strutturati. Vivono, alcuni anche da nove anni, nelle tende, negli edifici abbandonati, nei garage senza finestre sul ciglio della strada. Damasco, Raqqa, Homs, Dar’a, Idlib, Aleppo, i profughi sono arrivati da ogni zona della Siria. L’Isis bombardava, qualcuno scappava e qualcuno restava. Il presidente siriano Assad bombardava per riprendersi il territorio e iniziava a scappare pure chi si era salvato dalle prime bombe. Tutti sono scappati senza niente. Mentre la loro case andavano in frantumi non c’era tempo per pensare. L’unico obiettivo era salvare se stessi. Una condizione drammatica la loro che si è aggravata ancora di più dopo l’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus e alle condizioni politiche e sociali del Paese, che sta vivendo una crisi economica senza precedenti. Nei mesi scorsi dopo l’annuncio del default il debito pubblico è cresciuto, fino a rendere il Libano il terzo paese al mondo per rapporto debito/pil (170%). Non per ultima, l’esplosione di Beirut che si è verificata nell’area del porto lo scorso 4, uccidendo oltre 200 persone e ferendone altre 7mila.

«Se immaginiamo la società libanese come una piramide», spiega Alberto Capanninni, volontario di Operazione Colomba, «i profughi siriani si trovano all’ultimo gradino. Le loro condizioni di vita, già drammatiche, sono ulteriormente peggiorate». Operazione Colomba è il Corpo Nonviolento di Pace della Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII; i volontari dell’associazione vivono insieme alle famiglie siriane in un campo profughi dal 2014. Poiché condividono la vita di tutti i giorni con le famiglie e le persone, la loro presenza rappresenta sia un supporto per le difficoltà che affrontano quotidianamente i profughi siriani in Libano, sia un mezzo per registrare ogni abuso e intimidazione. Quando è scoppiata l’emergenza coronavirus e le frontiere sono state chiuse e i volontari sono rientrati in Italia, mantenendo comunque i contatti con i profughi siriani. Dopo la riapertura dell’aeroporto internazionale di Beirut hanno deciso di ritornare nel Paese a fianco dei profughi siriani. «La situazione», continua Capannini, tra i volontari che ora si trovano in Libano, a Tel Abass, nord del Paese al confine con la Siria, dove vivono 2mila profughi e 3mila libanesi, «è complicata. Per i profughi soprattutto non è semplice, per loro il Coronavirus è “il problema numero sei”. La situazione in Libano impone altre priorità. Dei bambini che vivono nei campi ormai quasi nessuno va più a scuola».

Il primo caso di Covid-19 è stato registrato in Libano a marzo 2020, causando la chiusura su larga scala di scuole, università, e spazi pubblici, e seguito da raccomandazioni di auto-isolamento per chiunque presentasse i sintomi del virus. «Ma», spiega Capannini, «mantenere l’auto-isolamento, così come un’igiene adeguata è quasi impossibile per chi vive in condizioni di disagio nei campi profughi o in edifici fatiscenti e sovraffollati. Molti siriani sono combattuti tra la dura decisione di continuare a lavorare, sfidando l’ordine di “rimanere a casa” e rischiando così l’arresto e il contagio, oppure rispettarlo, perdendo così qualsiasi entrata economica per pagare l’affitto, per procurarsi le medicine necessarie a risolvere altri problemi di salute e per accedere a beni di prima necessità. E se gli adulti non possono uscire per lavorare perché continuamente minacciati, ci pensano i bambini: abbiamo registrato un grande aumento del lavoro minorile, una ragazzina che conosciamo – 12 anni – lavora in una serra dove si coltivano le fragole: guadagna meno di un dollaro al giorno. Un altro ragazzino di 11 anni lavora per un fruttivendolo per 3 dollari alla settimana. Qui è un inferno. Un’altra donna che vive nel campo ha perso la figlia, affogata nella fogna del campo profughi. Il marito soffre di depressione e non esce mai dalla sua tenda, l’altro figlio è paralizzato. La signora per pagare le medicine e l’affitto della tenda lavora in due fabbriche di dolci, e si è indebitata con il proprietario del campo che adesso la minaccia».

Ma nonostante ciò continuano le deportazioni, gli arresti arbitrari e le torture, gli smantellamenti periodici delle tendopoli, gli sfratti forzati di interi campi profughi, e le restrizioni lavorative «la situazione per i siriani in Libano vista al tempo dell’emergenza del Covid-19», continua Capannini, «non è mai stata così precaria. L’unica soluzione è la creazione di zone zone umanitarie in cui non possano avere accesso eserciti e gruppi armati e una pace che definisca responsabilità e costruisca una Siria per chi non vuole la violenza. L’idea di partenza è semplice e nuova: “Perché al Tavolo dei negoziati siedono solo rappresentanti di chi partecipa alla distruzione del nostro Paese? Perché noi abbiamo solo la possibilità di scappare e non di mettere le nostre vite, le nostre idee, le nostre forze e speranze per fare una proposta di pace?”. Per questo insieme ai profughi siriani conosciuti in questi anni abbiamo scritto una proposta di pace». Nella proposta si legge “Noi siriani, profughi nel nord del Libano, riuniti in Organizzazioni ed Associazioni, semplici cittadini e famiglie scampati alla morte e alla violenza, a cinque anni dall’inizio della guerra che ha distrutto il nostro Paese, viviamo a milioni senza casa né lavoro, senza sanità né scuola per i nostri figli, senza futuro. Nel nostro Paese ci sono centinaia di gruppi militari che, con la sola legittimità data loro dall’uso della violenza e dal potere di uccidere, ci hanno cacciato dalle nostre case. Veniamo ancora uccisi, costretti a combattere, a vivere nel terrore, a fuggire, veniamo umiliati e offesi. Ai tavoli delle trattative siedono solo coloro che hanno interessi economici e politici sulla Siria.

A noi, vere vittime della guerra e veri amanti della Siria, l’unico diritto che è lasciato è quello di scegliere come morire in silenzio. Ma noi, nel rumore assordante delle armi, rivendichiamo il diritto di far sentire la nostra voce, e insieme a coloro che ci sostengono e a chi vorrà unirsi al nostro appello”. Sei i punti principali sui quali si invita a riflettere: la creazione di zone umanitarie in Siria, ovvero di territori che scelgono la neutralità rispetto al conflitto, sottoposti a protezione internazionale, in cui non abbiano accesso attori armati; che si fermi la guerra: che si fermino immediatamente i bombardamenti, che si blocchi il rifornimento di armi e che le armi già presenti vengano eliminate; che si ponga fine all’attuale assedio di decine di città siriane; che siano assistite le vittime e sostenuto chi le soccorre; che sia combattuta ogni forma di terrorismo ed estremismo, che questo smetta di essere, com’è ora, un massacro di civili innocenti e disarmati, che oltretutto alimenta il terrorismo stesso; che si raggiunga una soluzione politica e che ai negoziati di Ginevra siano rappresentati i civili che hanno rifiutato la guerra, e non coloro che hanno distrutto e stanno distruggendo la Siria e a creazione di un Governo di consenso nazionale che rappresenti tutti i siriani nelle loro diversità e ne rispetti la dignità e i diritti.

Credit foto: Operazione Colomba

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