Non profit

L’homeless è una persona che ti fa perder tempo

Paolo Pezzana

di Marco Dotti

So quanto sia difficile, ci sono passato lavorando come operatore di strada. Anni per farsi accettare, per costruire qualcosa che si avvicinasse a un rapporto, per vincere la diffidenza dell’homeless e far rinascere la fiducia, nell’altro e in sé». Oggi Paolo Pezzana è presidente di Fio.Psd, la Federazione italiana degli Organismi per le persone senza dimora, ma conosce la strada e chi la abita. Dal suo osservatorio, Pezzana riflette su quella particolare deriva che il sociologo Zygmunt Bauman ha chiamato «la moderna produzione di vite di scarto». «Se la globalizzazione ci ha resi vulnerabili e fragili», ricorda Pezzana, «nessuna posizione sociale, nessuna competenza, nessun lavoro può più dirsi al sicuro da una potenziale caduta al tempo stesso sociale ed esistenziale. Siamo diventati iperconsumatori, ma la globalizzazione che prometteva di “salvarci” ci ha “consumati”, trasformando il legame sociale nella variabile di una comunità che rischia di reggersi soltanto sulla diffidenza e il rancore».
Chi è, oggi, il senza dimora?
È una persona il cui disagio è talmente ampio che non può essere catturato da un’etichetta unica. Non è più e non è solo la persona da escludere, la persona senza mezzi che possano assicurarle la sopravvivenza, la persona ammalata o l’alcolista. Il suo disagio è multidimensionale. Direi che è l’ultimo anello della catena dell’esclusione. Quella catena, però, inizia molto prima. La soglia di povertà non andrebbe vista in senso statistico, ma in quello esistenziale. Nella vita di ognuno di noi possono accadere delle cose che ci fanno oltrepassare quella soglia. Il tetto sta crollando, ma noi non ce ne accorgiamo, perché guardiamo solo in basso.
A cosa è dovuto questo difetto di attenzione?
In gran parte dipende dalla parcellizzazione nel rapporto di aiuto. Una parcellizzazione che toglie spazio al compito e alla relazione. Sottrae infine la persona a quelle attenzioni che, unitamente al tempo e a una pazienza infinita, aprono alla dimensione della cura. Lo abbiamo visto a Bologna, quest’inverno, quando una ragazzina è morta solo perché nessuno ha ascoltato davvero, nessuno è andato al di là della sua “mansione”. L’homelessness e le nuove povertà, per essere affrontate alla radice, richiedono tempo. Per la sola fase di aggancio, quando scendi in strada, incontri, parli, cerchi di instaurare un rapporto di fiducia, servono mesi. A me è successo, quando lavoravo sul campo: magari riuscivi a tirar via dalla strada una persona che ci viveva da 20 anni, ma per entrare in un dialogo vero e duraturo ti ci volevano 2 o 3 anni. Tempo, dunque, e questo secondo il metro di valutazione corrente è “spreco”. Non è possibile prescindere dal tempo, dalla pazienza e dall’attesa. L’ascolto prescinde dagli standard di valutazione legati al mero business.
E il sostegno economico, non conta?
Ogni misura di welfare deve far perno su una politica di sostegno al reddito. Tutto il resto si monta attorno a questa politica. Ma un sostegno solo al reddito non risolve alcun problema: se una persona sradicata, che ha perso il senso delle cose e delle relazioni, viene lasciata sola davanti al denaro – poco, peraltro – rischia di non trarne quel beneficio complessivo che, invece, la cura della sua situazione richiederebbe. Un sociologo francese, Robert Castel, usa un termine molto evocativo, désaffiliation, per descrivere l’insieme di isolamento sociale e assenza di lavoro che consegue alla caduta nel baratro. La disaffiliazione è una spirale: più in basso ti trovi, più ti è difficile risalire, più cadi, più finisci per perdere contatto anche con il tuo “sé” più profondo. La grande sfida delle persone che lavorano sulla strada con i senza dimora è proprio quella di risalire con loro quella spirale. Provarci, almeno. Ben sapendo che, oltre un certo livello, anche il solo pensare che una persona possa recuperare una certa autonomia (una casa propria, una famiglia propria, un lavoro proprio) diventa abbastanza critico. Non per niente, nella nostra federazione, parliamo del raggiungimento del maggior grado di autonomia possibile. Autonomia anche nel tempo di vita. Ci sono infatti persone la cui giornata si struttura attorno al passaggio successivo: si svegliano il mattino, in un dormitorio e la loro prima preoccupazione è quella di mettersi in fila, guadagnandosi un posto per la doccia, poi per un pranzo, poi per una cena, infine un nuovo posto letto e così via, fino al mattino seguente. È la conseguenza di un sistema basato sull’offerta di servizi, sistema che conduce alla saturazione del tempo di vita che diventa saturazione del desiderio stesso di vita.
Anche nel consumo più sfrenato, però, si parla di saturazione del desiderio…
Sia l’iperconsumo sia l’ipoconsumo operano seguendo le stesse logiche e producendo effetti simili. È la logica del consumo a dirigere entrambi verso una saturazione del desiderio e una lotta minuto dopo minuto affinché non si produca quel vuoto che, nella nostra epoca, pare coincidere unicamente con l’ansia. Non soltanto manca la progettualità nelle politiche di welfare. Manca l’uomo, manca la centratura sulla persona. Un sistema che, nel primo caso, coincide con il consumo, nel secondo con il sistema dell’offerta di un servizio. Faccio un esempio: se il mio servizio per esigenze comunali, di convenzioni o di tempo degli operatori o dei volontari può stare aperto solo dalle ore X alle ore Y, il discorso è chiuso. È chiuso perché alla base non c’è un’idea di diritto, ma un’idea di beneficenza.
Ci fa un esempio preciso di questo errore?
L’esempio eclatante è Roma, la città che più di tutte in Italia ha investito sul problema, negli ultimi anni. Roma aveva un sistema di seconde accoglienze piuttosto strutturato, e cosa ha fatto? L’ha destrutturato per creare il pronto soccorso sociale e investire sull’emergenza, con il risultato di trovarsi con una struttura molto potente che, però, si occupa di un circuito di 3.000-3.500 persone, che non hanno alcuna via d’uscita. Le misure emergenziali hanno il limite di ridurre la cura all’emergenza, dando sostegno a chi è caduto ma non risalirà più e ignorando chi sta cadendo e si trova in equilibrio precario. Ma se ignori chi cade, presto non riuscirai più a gestire nemmeno l’emergenza…
Fuori dalla città è lo stesso?
È un fenomeno che nasce e si connota come marcatamente urbano, ma che sta diventando tipico anche delle città medio-piccole, che stanno perdendo le loro caratteristiche di comunità. Gli spazi pubblici si sono ridotti e le relazioni diventano più impersonali e transitorie. Empiricamente, attraverso i nostri servizi, osserviamo un’estensione del fenomeno anche alle province. L’homeless, in provincia, è però legato più che altro a persone migranti. Stiamo vedendo nei nostri centri molte persone che non ci saremmo mai aspettati di vedere. Sono persone che “improvvisano” e tentano di proteggere quel minimo reddito che hanno.
Chi sono, per esempio?
Pensionati e persino giovani che vengono alla mensa e, con i 5 euro che risparmiano, acquistano medicine. Se questo atteggiamento diventa strutturale, il rischio è alto. La differenza la fa la capacità di mantenere una rete informale di relazioni. Relazioni ancora possibili in provincia, ma destinate ad esaurimento, poiché il modello di sviluppo in cui siamo immersi se portato ancora avanti annienterà anche le solidarietà informali delle piccole realtà. E comunque le piccole realtà costituiscono il 30% del nostro Paese. Il 70%, invece, è aperto a quella che Bauman chiama la «vita di scarto». Nella nostra società gli “scarti” stanno aumentando, e noi che lavoriamo sul campo lo constatiamo giorno dopo giorno. Non dimentichiamoci che, nel giugno 2009, gli Stati Uniti hanno superato l’incredibile soglia dell’1% della popolazione incarcerata, effetto di una precisa politica sociale che non fa leva sull’inclusione. Ma se non vogliamo rispondere solo con il carcere al fenomeno della marginalità, dobbiamo cominciare a produrre risposte di tipo inclusivo. Dove “inclusione” può anche voler dire una generale tolleranza verso forme di marginalità. Se non si rimuove la vera, grande barriera della paura del diverso ne avremo danni tutti. E quando cadrà, ci verrà addosso con una forza d’urto tremenda.
L’analisi che traccia è abbastanza cupa, nonostante questo ne parla con serenità. Perché?
Perché ho fiducia. Altrimenti non mi sarei dedicato a questo “lavoro”. C’è sempre speranza e c’è sempre qualcosa da fare, anche quando tutto sembra perduto – e non lo è. Ma per farlo dobbiamo guardare bene in faccia ciò che ci sta attorno. Per fare, appunto. E fare bene. Per quanto è nelle nostre forze, nei nostri mezzi, nei nostri limiti. Ma fare.

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