Emergenza penitenziaria

L’ex medico di Rebibbia: «Per le carceri manca la programmazione»

Sandro Libianchi ha dedicato la vita alla salute in carcere, ha lavorato per oltre 30 anni nel penitenziario romano. «Bisogna investire in un programma di prevenzione e si sarà ripagati, in anni e in decenni. La parola d’ordine per cercare di risolvere i tanti problemi è programmare». È notizia di oggi, data dal ministro Nordio, che verrà introdotta la figura di un commissario straordinario che avrà il compito di attuare in tempi brevissimi il piano nazionale di interventi nelle carceri

di Ilaria Dioguardi

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha affrontato oggi, in question time, il tema del sovraffollamento carcerario. «Nella fase di conversione del decreto legge “Carcere sicuro”, abbiamo proposto di introdurre la figura di un commissario straordinario che avrà il compito di attuare in tempi brevissimi il piano nazionale di interventi per l’aumento del numero di posti detentivi e per la realizzazione di nuovi alloggi destinati al personale di polizia penitenziaria. Questo programma edilizio sarà imponente e sarà realizzato speditamente», ha detto il Guardasigilli.

Al problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani, si aggiunge quello dell’alto numero dei suicidi (58 dall’inizio dell’anno) e, in un’estate torrida come in questi giorni, del caldo soffocante. «Ogni anno d’estate si parla di emergenza caldo in carcere. Ma non è un’emergenza, basterebbe una buona programmazione», dice Sandro Libianchi, medico, presidente dell’associazione Conosci, Coordinamento nazionale operatori per la salute nelle carceri italiane.

Libianchi, lei ha dedicato la vita alla salute in carcere. Per arginare il problema del caldo negli istituti penitenziari, cosa si potrebbe fare?

La soluzione per il caldo c’è sempre stata, è a portata di mano. Basterebbe attuarla, la chiamerei “Programma emergenza caldo nelle carceri”. Bisogna stabilire dei tempi, delle modalità, soprattutto delle responsabilità e delle risorse. Risorse che non sono solo soldi, ma anche persone che devono avere diversi ruoli. Se esistesse un programma specifico, non ci ritroveremmo ogni estate con il problema enorme del caldo. E ogni inverno con quello del freddo.

Ci spieghi meglio.

Ci sono delle strutture carcerarie del Nord (parlo di Sondrio di Aosta, di Tarvisio) dove c’è l’emergenza freddo. Che non fa molto notizia. Ci dovrebbero essere delle visioni a lungo termine, con programmi precisi.

«L’acqua calda in cella non è un diritto essenziale», ma si «può pretendere solo in strutture alberghiere», quindi non certo in carcere. È questo il contenuto di un’ordinanza di un giudice di sorveglianza che ha rigettato il ricorso di un detenuto. Cosa vuole dire in proposito?

Non mi pronuncio su questa sentenza perché non l’ho letta. Ma, detta così, è uno schiaffo. L’acqua calda e l’acqua potabile sono i due requisiti di igiene minima indispensabile che devono essere garantiti in ogni collettività, soprattutto nei contesti confinati. Se abbiamo una collettività che vive in un carcere, devono essere rispettati degli standard di igiene minimi riguardo all’acqua. Le Nazioni Unite ci hanno detto che, tra i 10 parametri dei determinanti di salute internazionali c’è l’accesso all’acqua come requisito fondamentale di vita.

L’acqua calda e l’acqua potabile sono i due requisiti di igiene minima indispensabile che devono essere garantiti in ogni collettività, soprattutto nei contesti confinati

Con le temperature altissime di questi giorni, una doccia rinfrescante è ciò di cui ognuno di noi ha bisogno ogni giorno, anche più volte al giorno. I detenuti che diritti hanno per quanto riguarda le docce?

La doccia è un diritto variabile, a discrezione dell’organizzazione interna degli istituti, dipende da vari fattori. Accedere ai locali docce dipende dalla distanza tra le celle e i locali, quanti cancelli devono passare, quante persone devono andare a farsi la doccia, quanti e quali agenti ci sono sul piano e nella sezione per permettere l’andata e il ritorno. Nelle celle ci sono lavandini e water. Il bagno spesso è a vista perché la cella deve essere controllata. Lo spioncino o gli spioncini, da cui gli agenti guardano cosa accade nelle celle, mirano sulla stanza e nell’area bagno. Centinaia di questi dettagli fanno delle carceri dei luoghi di alienazione e di follia totale: la parola privacy in carcere non esiste, non può esistere, non deve esistere.

Sandro Libianchi

Sono già 58 i suicidi dall’inizio dell’anno tra i detenuti.

L’autolesionismo grave fino al suicidio, che è una forma estrema di autolesionismo, è un processo ed è un fenomeno multifattoriale. È inutile che andiamo a cercare la causa del suicidio, dobbiamo considerare i contesti nel loro insieme, che è fatto da tanti eventi e situazioni. Ad esempio, il deteriorato rapporto con la compagna o con il compagno della persona detenuta. Se una persona sta tanti anni in carcere, si deteriorano i rapporti sia con i partner sia con i figli, spesso arrivano le comunicazioni degli avvocati dei congiunti che chiedono il divorzio per colpa, e queste sono delle spade di Damocle per chi è recluso, che vive da solo questa sofferenza. Questo è uno degli eventi più scioccanti che ci possa essere nella vita di un uomo (o di una donna, ma le donne detenute sono molte meno degli uomini). Poi ci sono altri eventi scatenanti o contribuenti.

La mancanza di acqua, il caldo, il cibo scarso e di bassissima qualità, i propri problemi di salute fisica sono fattori facilitanti per atti autolesionistici, fino al più estremo che è il suicidio. Bisogna investire in un programma di prevenzione e si sarà ripagati, in anni e in decenni

Quali?

Quando arrivano telegrammi, notoriamente forieri di notizie nefasti, con le comunicazioni delle morti dei genitori, di fratelli, sorelle, del tipo «È morta tua madre, ti stiamo vicini. Coraggio, ce la puoi fare», quale si pensa possa essere la reazione di una persona chiusa, in un ambiente chiuso a chiave, dove non può fare nulla? Di disperazione. Poi, altro esempio, le sentenze che passano in giudicato oppure che arrivano dopo tanto tempo. Succede questo: quando si avvicina la scadenza del fine pena i tribunali accelerano i processi altrimenti la persona esce dal carcere. Quando mancano pochi mesi alla libertà arrivano spesso le sentenze pregresse. Questo è un grosso problema, il detenuto pensa di essere quasi libero e invece arriva una sentenza che dice che deve fare altri anni in carcere. Anche questo è scatenante. Se vediamo concretamente i fatti che possono indurre alla disperazione (la chiave del suicidio è la disperazione) ci sono anche i contesti fisici.


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Ci spieghi meglio.

La mancanza di acqua, il caldo, il cibo scarso e di bassissima qualità, i propri problemi di salute fisica sono fattori facilitanti per atti autolesionistici, fino al più estremo che è il suicidio. Bisogna investire in un programma di prevenzione e si sarà ripagati, in anni e in decenni. Ma la politica vuole far vedere che fa subito qualcosa, che trova delle soluzioni nell’immediato, come i 1000 agenti di Polizia penitenziaria. Che sono importanti, ma ripeto: la parola d’ordine per cercare di risolvere i tanti problemi è programmare.

Lei parlava poco fa dei rapporti che si deteriorano, negli anni, tra detenuti e figli e/o partner. Lo scorso gennaio la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma dell’ordinamento penitenziario che nega gli incontri senza controllo visivo tra i detenuti e i partner (VITA ne ha scritto QUI e QUI). Ma sembra una sentenza finora ignorata.

Basterebbe fare un programma, anche qui. Prima, il ministero dovrebbe fare una rassegna delle risorse a disposizione. Dovrebbe chiedere ad ogni istituto di compilare un questionario per identificare quali locali potrebbero essere idonei per fare colloqui intimi.

Da chi dipende l’igiene ambientale dei locali in carcere?

Dalle Asl, che si guardano bene dal mettere in atto controlli, se non molto raramente. Prendere atto delle situazioni negative significa dover evitare di essere omissivi della segnalazione all’autorità giudiziaria di quello che si vede. In altre parole, se una persona della Asi vede un problema di igiene grave in un istituto (nelle cucine, nei bagni) non può non segnalarlo all’autorità giudiziaria: in quel momento ha un ruolo di polizia giudiziaria, deve segnalare al magistrato che ha visto un reato. È un terreno molto scivoloso quello della prevenzione di igiene pubblica. Un articolo dell’ordinamento penitenziario, il n.11 della legge 354/1975, dice che «Il medico provinciale (oggi Asl, ndr) visita almeno due volte l’anno gli istituti di prevenzione e di pena allo scopo di accertare lo stato igienico-sanitario, l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive disposte dal servizio sanitario penitenziario e le condizioni igieniche e sanitarie dei ristretti negli istituti». Questo si fa rarissimamente e non si hanno dati in proposito.

Libianchi, cosa vuole dirci dei suoi 30 anni di lavoro in carcere?

30 anni di dirigenza sanitaria di un complesso penitenziario così grande e complicato, come Rebibbia, lascia segni. Ho ricoperto diversi incarichi, l’ultimo in ordine di tempo di coordinatore generale della sanità penitenziaria nel Complesso poli penitenziario di Rebibbia. Il mio lavoro in carcere è stato una grandissima sfida. E la sfida era molto più grossa di quella che io pensavo all’inizio. Credevo di andare a fare il medico, in realtà in carcere devi fare anche tante altre cose, insostituibili per fare il medico, come lo psicologo e il comunicatore. È un lavoro che ho fatto a tempo pieno, sono uno dei pochi ad averlo fatto full time, il 95% delle persone che lavora in carcere lo fa a livello consulenziale o poche ore a settimana. Il mio lavoro è andato avanti con una decodifica pluriennale per capire com’è strutturata la dinamica intra carceraria, e poi anche quella intra penitenziaria, ovvero il sistema tra ministero, misure alternative, gli assistenti sociali. Il sistema carcerario, che fa parte del sistema penitenziario e non è un tutt’uno, deve essere analizzato per poter capire e ci vuole tanto tempo.

È stato un lavoro duro?

Si prendono tante delusioni, si devono affrontare tanti contrasti. Devi lottare contro l’immobilismo, contro la volontà della maggioranza delle persone che ha una resistenza al cambiamento cronicizzata. Per lavorare in carcere così tanti anni bisogna avere una struttura psicologica estremamente flessibile, elastica, adattativa. Come presidente di Conosci, continuo a frequentare le carceri. Ma ho avuto bisogno di un anno di stacco prima di rientrare in carcere, dopo essere andato in pensione. È stato necessario.

Foto di apertura di falco da Pixabay. Foto associazione Conosci

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