Non profit

Lettera aperta al popolo di Fa’ la cosa giusta

editoriale

di Giuseppe Frangi

Erano in migliaia a Milano sotto i padiglioni della Fiera “di città” all’appuntamento di Fa’ la cosa giusta. Centinaia di espositori, con i loro stand allegri e festosi, che stavano un po’ stretti dentro quegli scatoloni di cemento, abituati a vedere macinare grandi affari (prima che la Fiera vera venisse trasferita sotto le immense vele di Rho Pero). Famiglie, bambini, colori. E poi suoni, odori e sapori senza frontiere. Insomma, una fiera bella, ricca di proposte e suggestioni, ben riuscita. Eppure quest’anno si sentiva nell’aria un qualcosa di strano. Uno spaesamento. Una voglia di vivere l’appuntamento come una specie di rifugio, per proteggersi da un mondo inselvatichito in cui non ci si raccapezza più. Si aveva la sensazione di muoversi in una bella nicchia. Lo avvertivi nelle parole scambiate, negli interventi agli incontri: c’era un po’ il senso di una sconfitta. Quasi una non dichiarata rassegnazione. Come se si fosse perso il bandolo della matassa e quindi non restasse, come ultima chance a cui appigliarsi, che la coerenza dei comportamenti privati. Insomma, non avvertivi la voglia di una sfida, di una progettualità elaborata e verificata dentro quei capannoni ma da portare poi in mezzo alle piazze, proposta alla vita di tutti.
Per altro fuori di lì non c’è un mondo qualunque. Ma c’è un mondo, o meglio una città ferita da una crisi di cui non si scorgono i confini ma di cui possono radiografare benissimo le ragioni. Il modello speculativo – competitivo è affondato e la città (come tutte le città del resto) deve cercare altri modelli cui guardare. La città è sotto pressione, perché gli assetti sociali evolvono in modo rapido e imprevisto, cambiando i punti di riferimento. Le scuole sono piene di ragazzini con la pelle di tutti i colori: i giovani che vengono dai nuovi mondi sono molto più attivi e protagonisti di quanto ce li dipingessero, i vecchi del vecchio mondo invece sono epigoni di una città che non sarà più così.
Forse nel suo insieme può apparire come una città “culturalmente” ostile, che sembra aver ceduto alle blandizie di un potere senza opposizione. Ma è anche una città che cambia suo malgrado. Nuove soggettività crescono, nuove reti si costituiscono. Nuovi protagonismi s’affacciano sulla scena.
Per di più all’orizzonte si delinea un appuntamento fatidico, quello del 2015, che certamente alletta i signori del cemento ma che in tanti vivono come un’opportunità di cambiamento e di novità. Che ha acceso attese e qualche legittimo sogno di una città diversa.
Davanti ad un orizzonte così, Fa’ la cosa giusta è sembrato l’appuntamento di chi si chiama fuori, con la preoccupazione primaria di sfilarsi dal misfatto presunto che si consuma. Eppure in quella fiera laboratorio c’erano i semi di tante idee di cui la città là fuori avrebbe un gran bisogno. L’idea di sostenibilità in tutte le sue accezioni; l’idea che la relazione è vincente rispetto all’individualismo; l’idea che la filiera corta è vincente rispetto alla globalizzazione scriteriata. Tutte idee sicuramente vincenti, a patto di non tenerle solo per sé e di non spegnerle con l’acqua tiepida del fatalismo.


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