Non profit
Lettera aperta ai manifestanti della marcia per la pace
Dopo lundici settembre chi pensa che un altro mondo sia necessario, ha unoccasione per interferire con il governo del mondo. Per farlo deve decidere obiettivi e metodi.
Dalla mia cella si vede male, ma ho comunque la sensazione che sia molto cresciuta, dentro l?involucro di categorie ormai molto di maniera, compreso ?il pacifismo?, la benvenuta distinzione. Altrettanto bene è che questa differenziazione non impedisca appuntamenti comuni, come nella marcia Perugia-Assisi, che vi invidio. Specialmente nella marcia Perugia-Assisi, per la sua storia e per il suo paesaggio, diciamo così, mi sembrerebbe assurda la pretesa di un?egemonia di programmi e parole d?ordine, e tanto meno di inclusioni ed esclusioni. C?è una domanda di fondo, sempre la stessa, ma in un contesto via via diverso: come l?impegno civile, volontario, può proporsi di influire sul cambiamento del mondo? Quando non si tratti di progetti di partito, o di fazione, che trovano riuscita in se stessi, nel rafforzamento della propria quota di minoranza, se non nella propria aspirazione a una guida autosufficiente del cambiamento (casi per me non interessanti) ci sono due soli modi di efficacia.
La meta dell?impegno
Il primo è nell?azione autonoma che ciascuno, individuo o associazione, conduce nell?ambito e sui bisogni che si è assegnato. Questa azione è preziosa, per chi vi si dedica e per chi ne è toccato, ma sa di non potersi proporre un?efficacia lontanamente commisurabile al più vasto tentativo di governo delle cose. È ragionevole proporsi un?efficacia anche su questa scala enorme? Credo di sì. Non ho fiducia nella sola protesta, indipendentemente dalla disputa sui modi in cui si svolge, e ancora meno nel boicottaggio: che non hanno interesse per l?efficacia positiva, o tutt?al più la descrivono come l?effetto ipocrita e difensivo cui i poteri contestati sono costretti dall?assedio della protesta, come un affar loro. Le forze della società civile e dell?impegno volontario possono influire efficacemente solo in maniera indiretta, cioè attraverso le istituzioni, formali e di fatto, dotate di poteri. Comprese quelle di cui più viene contestata la legittimità o l?operato sostanziale. Per ideologismo o per moralismo (ragioni che possono essere cattive o buone) questa elementare constatazione realistica fa fatica a essere riconosciuta. Tuttavia il riconoscimento è la conseguenza inevitabile della dichiarazione secondo cui la meta dell?impegno civile non è una rivoluzione politica come conquista del potere.
Dopo l?attacco, tremo
Ora, se l?Undici settembre è davvero uno spartiacque, una delle conseguenze riguarda l?atteggiamento dei poteri ufficiali nei confronti del destino del mondo, finora ottimisticamente e cinicamente affidato al vento della globalizzazione economica. Scrivo, domenica 7 ottobre, quando l?azione militare è stata appena intrapresa dagli Stati uniti e dalla coalizione cosiddetta antiterrorista: e tremo, e non so che cosa ci riservi il futuro. So che il passato recentissimo, da quell?Undici settembre, ci ha riservato qualcosa di sbalorditivo. Mi sembrerebbe un peccato che il nuovo e travolgente sviluppo mettesse senz?altro in archivio il senso delle impreviste tre settimane che l?hanno preceduto.
Provate a rileggere un po? di cose dette in nome del pacifismo dopo quell?orrendo assalto. Sono state deprecate, attribuendole al governo americano, parole e gesti di violenza e di vendetta, tamburi di guerra, minacce furenti, istigazioni allo scontro di civiltà, e sono stati paventati e scongiurati fatti di rappresaglia colossale e indiscriminata, bombardamenti a tappeto e carneficine di civili. Si sono fatte manifestazioni contro tutto ciò. Ma non è successo. È successo il contrario. Le parole delle manifestazioni sono diventate le stesse dei governi, a cominciare da Bush.
Le parole fuggite dal seno, crociata, per esempio, sono state corrette e scusate, riducendosi a gaffes estemporanee. Si è insistito sul rifiuto delle guerre di religione e dei confronti di civiltà. Si sono ricercati e ostentati incontri fra esponenti religiosi e nazionali, visite alle moschee, pazienti trame diplomatiche. Si è ammessa la propria fragilità e vulnerabilità. Si è dichiarato che l?economia dovesse cedere il primo posto alla politica, per tentare di recuperare la sicurezza così sanguinosamente e traumaticamente perduta. Si è trattata la Borsa, impresa paradossale, come un tempio della difesa civica della democrazia. Retorica, sentimento, sono state spese largamente, ma in questa direzione , opposta a quella del rullo di tamburi. Si è ammesso che la campana suonava per noi. Si è ripetuto che un?azione militare avrebbe dovuto disporsi d?ora in poi al costo delle vite umane americane e ?occidentali?, e rispettare l?impegno di risparmiare le vite dei civili in Afghanistan e altrove. Si è accolto e inaugurato il proposito di un soccorso umanitario nei confronti della popolazione civile. Si è infine sottratto all?esclusiva delle poche voci interne dissidenti il pensiero che l?attacco infame condotto contro l?America, e soprattutto l?odio vasto che aveva trascinato e rivelato in tanta parte del mondo contro l?America, dovesse diventare l?occasione di un?interrogazione sul ruolo mondiale dell?America, e sul suo modo di vita. Ho detto che tutto ciò, congiunto con una lunga dilazione dell?azione, è stato sbalorditivo. Aggiungo che l?opposizione internazionale, no o new global, e non solo quella più superstiziosamente antiamericana, ne è stata vistosamente spiazzata. Felicemente spiazzata: quando ha voluto accorgersene, e congratularsene, piuttosto che sentirsene imbarazzata, e riparare nell?idea (non del tutto infondata, ma così facile, e così poco fondata) che l?inatteso atteggiamento dell?America, per giunta del presidente repubblicano, rozzo e devoto alla pena capitale, dello sbrigativo Blair e dell?alleanza costruita attorno a loro, non sia se non fumo negli occhi, un espediente tattico, o il frutto effimero della paura e dell?interdetto. Non è così: ed è comunque meschino immaginare che sia solo così.
No alle recriminazioni
Al contrario, la varia gente che pensa che un altro mondo sia necessario, e desidera che sia possibile, ha un?occasione drammaticamente importante per interferire con la questione dell?efficacia, del governo del mondo. Per farlo deve rendere forte e coerente quanto può la sua autonoma azione varia e concreta, in un luogo, un ospedale di Kabul, su un problema, l?acqua in Mozambico; e insieme riconoscere con esattezza e spregiudicatezza, senza pregiudizio ideologico o moralista, cioè – quali obiettivi le sono comuni con le istituzioni dei poteri, e quali le sono estranei o avversi. E quali metodi. E dare poco peso alle recriminazioni e alle comparazioni retoriche, e molto peso ai fini. Restituire l?Afghanistan a una decente vita civile, liberare le sue donne dalla galera e dalla tortura, impedirgli di far da covo al terrorismo suicida – assassino (reso più spregevole, non più degno o coraggioso o morale, dallo zelo suicida): ecco obiettivi che l?impegno civile e volontario dovrebbe sentire propri almeno quanto (ma molto più) che qualunque governo ricco. I governi ricchi hanno fatto molto, troppo per provocare la tragedia cui è arrivato il mondo, e l?Afghanistan in particolare, e tuttavia oggi sono forzati, piuttosto che a un?ennesima peripezia del cinismo diplomatico-militare, a riflettere sui costi mostruosi, a casa loro, della loro politica.
Quell?estrema renitenza
Finisco di scrivere mentre la notte avanza, e un notiziario dice che c?è stato un corteo di protesta pacifista contro l?intervento iniziato, e che sono state bruciate bandiere americane. Mi fa pena che si brucino bandiere in genere: in particolare, ora, quella americana. Non ho la memoria corta, anzi. Mi ricordo, al tempo del Vietnam, una manifestazione romana per una visita di Johnson, botte da orbi. C?era un giovane avvolto in una bandiera americana, con un cartello al collo: «Mi faccio schifo». Lo trovai geniale. Bruciare una bandiera americana ora, dopo l?Undici settembre, dopo l?uso che gli americani hanno fatto della bandiera attorno a quella voragine, mi sembra raccapricciante. Manifesterei con una bandiera americana? Davanti alla risposta, c?è un bel cordone di luoghi comuni: abbiamo ammainato tutte le bandiere, eccetera. Messo da parte il quale, e i falsi pudori, resta un?estrema renitenza: perché l?America è forte, è una potenza, è la potenza, e non si vuole alzare una bandiera di potenza. Ma anche questo è un pretesto. Abbiamo detto tante cose orgogliose, quando era necessario: siamo tutti ebrei tedeschi, siamo tutti vietcong, siamo tutti boat – people, siamo tutti cattolici polacchi, siamo tutti profughi kosovari? E non avremmo avuto abbastanza coraggio da dire: siamo tutti americani, almeno per due o tre cortei, dopo quell?Undici settembre?
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