Gentile Renzi, apprendo con sconcerto di un’autorizzazione concessa per installare slot-machine in uso ai ragazzini, in una ludoteca di Firenze. La dicitura è da giornalisti, quindi inesatta: Baby Slot,
Baby slot era infatti un vecchio modello di mini slot machine, in uso un tempo in quel di San Francisco, dopo la famosa, favolosa, famigerata – direbbe Neil Young – caccia all’oro. Dopo ogni caccia all’oro, infatti, l’azzardo spopola. Basta riguardarsi le cronache della S. Francisco del 1848… Le baby slot erano baby solo nel formato, ma dedicate – che brutta parola, “dedicate” – a adulti.
La dicitura è inesatta, quindi. Ma questa è la forma, speriamo inesatta lo sia anche la sostanza.
Le baby slot che apprendiamo essere state installate Firenze, sarebbero baby solo nel senso che vengono “dedicate” a ragazzini, ai loro giochi, a occupare i loro tempo che solo con un’ardita metafora possiamo ancora definire “libero”. Il gioco è una totalità, dal gioco non si esce. Il gioco – cito Gadamer, mi scuserà la pignoleria – è tale proprio perché si prende gioco dei giocatori, li trasporta in un’altra realtà. Quale sia questa realtà e compito nostro capirlo.
Le scrivo perché ho il sospetto che si sia andati ben al di là della forma, Sarebbe allora la sostanza a parlare. Non poco, ma meno di zero, anzi nulla conterebbe, in questo caso, che le slot non prevedano vincite in denaro (ci mancherebbe altro, la legge ancora vieta, ma non sappiamo per quanto, l’azzardo à prix d’argent per i minorenni). Qualcuno si affretterà a classificarle nei giochi di destrezza, i cosiddetti “skill game”. Altri diranno che esiste una pedagogia legata alla cosiddetta “ludodidattica”. Parole su parole. Guardiamo ai fatti. Proviamo un esperimento di pensiero e ragioniamo allora come se il denaro contasse, in questa storia. E conta, eccome se conta, almeno come orizzonte possibile, come possibilità aperta dal gioco d’azzardo. Ci sono cose che chiamano altre cose, una slot che altro chiama se non, per quanto in forma simbolizzata e mediata (le fiches), denaro?
Ci sono infatti vie informali, che i ragazzini ben conoscono, per puntare soldi senza per questo inserirli nella macchinetta. Lo facevo anch’io, da piccolo, giocando a biglie, ma era un’altra storia. Tutta un’altra storia e tutta un’altra società: per giocare, da grande, dovevi mascherarti, vestirti di tutto punto, entrare in una bisca o in un casinò. Roger Caillois, nella sua classificazione, ha distinto giochi di mascheramento (il carnevale, ad esempio), giochi di agonismo (la corsa o il calcio, ad es.), giochi di vertigine (gli sport estremi, ad es) e giochi di pura alea. Se questi ultimi prevalgono, prevale ciò che il compianto Giuseppe Imbucci chiamava la variante biologica e compensativa del gioco: si compensa nell’alea e nell’azzardo che ne consegue, quel principio-speranza che altrimenti, in una società disperata e disperante, non sappiamo più trovare. Quando si passa a questa fase, la storia cambia e diventa davvero una brutta storia.
Ora le bische sono a cielo aperto, il gioco d’azzardo ti invade via internet, in tv, entra nelle case e persino nelle ludoteche: come se dalle condutture dell’acqua potabile uscisse alcool. Con l’alcool non ti puoi lavare, né dissetare. Ma in mancanza d’altro – in mancanza di lavoro, di economia, di speranza – prima o poi ti abitui. E ci si abitua a tutto, anche a questo. Siamo ridotti a un popolo di alcoolizzati d’azzardo. L’oppio della miseria, lo chiamava Balzac.
Nella sua più intima natura l’azzardo non si dà senza rischio e, solitamente, socialmente, si rischia sempre ciò che è reputato il valore cardine di una società. Siamo la società del denaro, anche se il denaro manca. Anche se manca, ne rimane la matrice, come in uno stampo. Ma in fin dei conti, è sempre la speranza che ci giochiamo al lotto, alle macchinette, ovunque.
Ci avviamo a diventare una società senza gioco (quello vero, quello dell’infanzia), se consumiamo il gioco nella frenesia del rischio e lo consegniamo al puro azzardo. Come nell’Avana di Batista, dove si giocava su tutto, persino sul ritardo di un bus…
Come è possibile non scorgere il filo sottile di un gioco che è uscito dal gioco e che, tra slot, videolottery, gratta & tutto ha pervaso, invaso, colonizzato ogni spazio del nostro immaginario adulto e, ora, si appresta a farlo coi giovani, i vecchi, persino con i ragazzini?
Il lavoro prevede un’opera, una collaborazione. Prevede fatica e riposo, otium. Il gioco d’azzardo è puro dispendio, senza opere né giorni. Senza ozio, puro disastro dei nervi e dello spirito, puro dispendio senza opera.
Se ci attenessimo al solo piano formale l’azzardo, che pure pervadeva le nostre esistenze in ogni suo rivolo, sembrerebbe fenomeno marginale. Ma noi sappiamo, da studi, ricerche, anche se basterebbe l’esperienza a attestarlo, che non è così; che la sostanza prevale sulla forma, quando in gioco è il denaro e, in fin dei conti, la vita.
Poco importa, dunque, la legittimazione formale. Perché chiunque conosca minimamente storia e controstoria dell’azzardo – che aFirenze, nel 1530 vide istituita la prima lotteria pubblica d’Europa… – sa che per un azzardo totale, di massa come quello versoil quale si sta dirigendo la nostra “serva Italia” (ah, Dante!, che, giocatore pentito, contro l’azzardo scrisse), serve ciò che anche l’Economist denunciava nel 2010: un’attività di traino. A Lei non sarà sfuggito quanto scrive e riporta l’amico Simone Feder, storie quotidiane di disperazione e immiserimento, nel suo bel blog No slot… (clicca → qui)
Un’attività di formazione in ludoteca – che, in questo caso, sarebbe di deformazione – per familiarizzare con ciò che solo per un malinteso terminologico continuiamo a chiamare “gioco”, ma forse è già diventato altro, può non dirsi complice di ciò che, in questo tempo di passioni tristi, chiama e al tempo stesso produce un disastro antropologico senza precedenti?
Il gioco,scriveva il filosofo Eugen Fink – che nella sua città ebbe un grande, indimenticato allievo: Ferruccio Masini – è un’oasi, un’oasi della gioia, in un mondo di deserti senza gioia. Che cos’è una “ludoteca” se non un luogo di pace, un’oasi, un luogo antropologicamente adatto a accogliere fantasia, a sciogliere tensioni? Vogliamo trasformarla in una baratteria o ribalderia (così si chiamavano allora le bische pubbliche), quella vecchia, medievale istituzione della quale proprio il Dante a Lei e a noi tanto caro scrisse (Inferno, XXI)?
“Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch’io rendo ragione in questo caldo”.
Vogliono – e con questo “loro”, anche “noi”, complici ovittime, davvero lo vogliamo? – invadere le oasi, colonizzare lo spazio della fantasia, trascinarla a forza verso il serio, serioso, triste e infine tragico universo dell’azzardo di massa. Siamo complici? Siamo vittime? Siamo spettatori? O vogliamo dirci e farci attori di altri, ben più consapevoli processi?
Sarebbe bello, dottor Renzi, che su questo si potesse, partendo proprio da quello che spero sia un malinteso, attivare un dibattito libero, serio, storicamente rispettoso e umanamente rispettoso non solo delle nostre intelligenze, ma di quella forma viva, pura, ancorché indeterminata della vita che – ma per quanto, ancora? – chiamiamo “infanzia”…
Si inizia criticando il male – scriveva Balzac – si continua col tollerarlo, si finisce col commetterlo. Ma sono certo non sia questo il caso. Ho speranze che l’altro mi sorprenda, speranze non ancora svendute al mercato dell’azzardo.
Si faccia sentire, facciamoci sentire. Con gesti eclatanti, se necessario. Ma servono, di questi tempi, per non bruciare anche noi in uno di quei falò delle vanità che già Bernardino da Siena, in una sua predica fiorentina, indicava essere l’unico destino delle società che si piegano a quella forma di usura che, già il Santo, individuava nel gioco d’azzardo.
Lei è uomo intelligente, saprà cogliere un problema che va ben oltre la retorica in cui confiniamo solitamente i problemi.
In attesa di un Suo riscontro, le porgo i miei saluti
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