“Se qualcuno pensa che sia difficile misurare la felicità, allora provi a misurare il PIL, io ci ho provato per vent’anni e vi dico che non è certo una cosa facile!” Con queste parole ha reagito Enrico Giovannini, già membro della “Commissione Stiglitz” rispondendo ad un certo scetticismo di Karl Falkenberg, Direttore Generale della DG Ambiente dell’UE, entrambi intervenuti in apertura della conferenza organizzata a Bruxelles dal Gruppo III del CESE lo scorso 10 giugno. (qui le conclusioni finali, http://www.eesc.europa.eu/resources/docs/europe-iii—july-2014–sup.pdf)
Questa conferenza, costruita immediatamente a ridosso delle elezioni europee, si poneva l’obiettivo di rilanciare il dibattito nello spazio pubblico europeo su una della maggiori innovazioni di questi ultimi dieci anni, circa la definizione di nuovi indicatori capaci di misurare il benessere e il progresso sociale nel contesto di una economia provata dalla crisi e che deve ricercare con rapidità nuovi modelli e nuovi equilibri, per garantire un progresso sostenibile e inclusivo. Al di là di tutte le retoriche e resistenze, tutt’ora molto forti, nel superare gli ormai usali parametri per misurare lo stato di un paese e indirizzare le sue scelte economiche, è giunto il tempo di prendere sul serio il lavoro fatto da oltre 30 anni e considerare che i modelli messi a punto in sede OCSE e le competenze acquisite da Eurostat possono consentire di andare al di là delle due rigidità in cui ci siamo rinchiusi: la crescita del PIL e il vincolo del deficit di bilancio. Vi sono paesi che vedono crescere il PIL, ma diminuire il numero delle imprese e anche il reddito disponibile per le famiglie, oltreché distruggere l’equità sociale e anche la sostenibilità a lungo termine.
Del resto, gli obiettivi di sviluppo sostenibile, della coesione sociale e territoriale sono ormai assunti in modo chiarissimo nell’art 3 del Trattato di Lisbona, che fissa sin dal suo incipit che l’UE si prefigge la promozione della pace, dei suoi valori e del benessere dei suoi cittadini. Cui seguono indicazioni molto specifiche, ciascuna delle quali già oggi è concretamente misurabile in termini di risultati e di target. Così anche la stessa Strategia Europa2020 fissa obiettivi molto precisi in termini di competitività, ricerca e sviluppo, eduzione, cambiamento climatico, riduzione della disoccupazione e della povertà.
Di cosa abbiamo bisogno dunque per tradurre queste indicazioni politiche precise in indicatori in grado di orientare in modo diverso la lettura delle situazioni e le decisioni politiche dell’UE e degli Stati membri?
Semplice, di molto pragmatismo, per uscire dal circolo di una logica solo orientata alla produzione e allo scambio di beni per prendere in considerazione ciò che davvero conta per le famiglie e per i cittadini. Di scelte non ideologiche per uscire dalla trappola del “PIL e nulla più perché tutto il resto è solo letteratura” e cominciare almeno dall’integrare il PIL con alcuni a pochi altri indicatori che diventino altrettanto vincolanti (disoccupazione, reddito delle famiglie, povertà infantile, riduzione CO2, tasso di competitività, per dirle alcuni ormai chiari) e su questi basare sia le scelte politiche, sia anche gli strumenti di intervento e stabilizzazione degli squilibri macroeconomici, che insidiano lo sviluppo ordinato e a lungo termine del continente.
E urgente passare dalla letteratura ai fatti: solo misurando ciò che conta per i cittadini è possibile associarli maggiormente nella comprensione e nella formulazione delle scelte politiche, scoprendo probabilmente nuovi e immensi bacini anche di crescita e aumentano la governance partecipata.
E’ infatti ora di prendere sul serio le cifre che tutti conosciamo e cioè che investire in sviluppo sostenibile, energia verde, coesione sociale e territoriale, qualità della vita e beni immateriali produce crescita economica, nuovo e buon lavoro e benessere generale per l’intera società. La stessa crisi ha dimostrato quanto questi i settori sono stati i più resilienti e, in alcuni casi, assieme al settore dell’economia digitale, gli unici ad aver visto crescita significativa degli occupati e dei fatturati (per la sola economia sociale europea si parla di oltre il 30% in media)
Agli inizi di una nuova legislatura, è dunque possibile immaginare che le nuove strategie di crescita e occupazione dell’UE si orientino concretamente in questa direzione, sia nel quadro della revisione della strategia EU2020 che di un diverso equilibrio del semestre europeo e della Analisi Annuale della Crescita che la Commissione predispone ogni anno a monte del processo di esame delle situazioni socio-economiche e dei bilanci di ogni Stato membro, proponendo anche che vengano condotte delle adeguate valutazioni di impatto orizzontale di tutte le scelte politiche ed economiche delle autorità pubbliche sul benessere e sulla qualità della vita così definiti, fornendo così un quadro più adeguato dell’Stato dell’Unione. E per questo, la Conferenza ha ancora sottolineato che va riconosciuta la capacità e la competenza chiave di Eurostat nel sostenere tutto questo processo.
Questa conferenza si è pensata come un concreto e fattivo contributo a quella logica di cambiare verso alle politiche dell’UE, che così forte è emersa durante il dibattito elettorale e in questo primo avvio di legislatura. Confidiamo che il messaggio sia stato raccolto.
Tutti i documenti, le relazioni principalie le conclusioni della Conferenza di possono trovare sul sito seguente del CESE: http://www.eesc.europa.eu/?i=portal.en.events-and-activities-happiness;
http://www.eesc.europa.eu/resources/docs/europe-iii—july-2014.pdf
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