Economia

L’etica è la nostra bussola in una globalizzazione al collasso

L'orientamento etico, spiega Joseph Stiglitz, «può essere una bussola imprecisa, ma almeno fornisce un'indicazione in un mondo in cui il solo faro, troppo spesso, segnala la posizione sbagliata»

di Marco Dotti

Il pregiudizio che la globalizzazione, più che una tendenza o un processo, fosse un destino – e in quanto destino ingovernabile – ha segnato il discorso mainstream negli ultimi quindici anni. La profonda convinzione che in un mondo sempre più complesso, stratificato e asimmetrico, valessero ancora le regole del gioco tracciate tre secoli or sono dal padre nobile delle scienze economiche, Adam Smith, secondo il quale chi persegue il proprio interesse personale persegue anche l'interesse generale, ha fatto il resto.

Le conseguenze di questo pregiudizio e di questo egoismo diventato da forza motrice, ideologia sono sotto gli occhi di tutti: sfiducia negli organi di informazione, disuguaglianze crescenti, rancore sociale, crisi economica e del credito. Redistribuzione negativa: ai ricchi sempre di più, agli altri sempre meno.

Coperti da un dibattito orientato e al contempo disorientato da questo pregiudizio, i Paesi industrializzati, osserva Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’economia nel 2001, hanno dato alla globalizzazione una struttura che viola le norme etiche di base.

Nel 2003, cinque anni prima che la crisi finanziaria innescata dal crollo del castello costruito sui mutui subprime seppellisse l’euforia dei «globalizzati e contenti», in una conferenza tenuta alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, pubblicata ora con il titolo La bussola imprecisa. L’etica nel mondo della finanza globalizzata (trad. F. Lopiparo, Castelvecchi, 2018, pp. 56, euro 9), Stiglitz poneva una questione cruciale: l’etica può ancora aiutarci a orientare le scelte istituzionali? O la globalizzazione coinciderà sempre più con la neutralizzazione di queste scelte? Possiamo applicare criteri etici alla finanza o la partita è irrimediabilmente persa?

Senza riforme della governance, osservava l’autore de La globalizzazione e i suoi oppositori (Einaudi, 2003), la legittimità delle istituzioni sarà irrimediabilmente compromessa e monterà, inevitabile, una reazione dal basso. Questa reazione è arrivata nel cuore stesso delle nostre realtá post-industriali, in forme e modi che ancora capiamo a fatica. L’etichetta ambigua di «populismo» riflette a pieno questa fatica del capire e del reagire.

Un mix di fallimenti di mercato e accresciute asimmetrie informative (chi ha più informazioni e le ha prima può avvantaggiarsi nei confronti degli altri), di consulenze private unite a egoismo pratico e solidarietà di mero principio hanno reso poco credibili le istituzioni di mercato, a partire dalle banche, passando dalle aziende su fino ai governi.

La sfiducia è uno smarrimento etico rispetto a intenzioni e dichiarazioni («ridurremo la disoccupazione», «tuteleremo il risparmio») che nel concreto tutelano interessi privati, magari a scapito di altri interessi privati. Ma mai l’interesse generale e comune.

Il punto di discrimine fra etico e non etico risiede proprio nelle conseguenze: un comportamento manageriale, un’azione di governo, un intervento istituzionale aumentano le asimmetrie delle informazioni e la redistribuzione negativa a danno dei poveri o no?

LEGGI LA NOSTRA INTEVISTA A JOSEPH STIGLITZ

Azioni “caldamente suggerite” da Washington ai Paesi in crisi, come le privatizzazioni dei settori energetici, caldeggiate dal Fondo Monetario Internazionale, come la conversione dal rublo al dollaro del debito russo al tempo della crisi, o la rottura di ogni argine in un mercato creditizio già di per sé imperfetto hanno aumentato o ridotto queste asimmetrie?

Rispondere ex post è relativamente facile. Il problema è l’ex ante, per questo al nostro agire serve più che mai una bussola. Una bussola imprecisa, forse, ma la sola che abbiamo per discernere quali interessi privilegiare: l’etica, appunto.

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