Cultura
L’età del turismo: industria pesante in un mondo liquido
Milioni di addetti, miliardi di dollari, innovazione tecnologica e forza lavoro bruta: eppure, continuiamo a considerare il turismo come un fenomeno tipico della postmodernità immateriale. Perché? L'ultimo libro di Marco d'Eramo, "Il selfie del mondo", edito da Feltrinelli, ci aiuta a capire
di Marco Dotti
Che cosa cerca, che cosa trova, che cosa, al più, spera di trovare o s’impone di cercare il turista impegnato a farsi un selfie davanti a una di quelle cattedrali della simulazione imperfetta che sono le varie “venezie” in replica sparse per il globo?
Prendiamo The World, il parco a tema vicino a Pechino. Le Piramidi, il Partenone, i moai dell’Isola di Pasqua. Tutte riproduzioni, certamente. Ma, in scala o meno che siano, queste riproduzioni giocano un ruolo nella costruzione di un immaginario, così come i turisti giocano una parte in qualcosa che eccede questo immaginario sfondando in un campo, il “turismo”, che stentiamo a elaborare a pieno. Tutto suona inautentico, in questo gioco fra ruolo e parte, non fosse che per il fatto che una parte di quel tutto, in qualche modo, resiste e sfugge al circolo, fin troppo vizioso, del “post-”.
Un'industria pesante
Anche del turismo odierno si è parlato in termini di post-turismo, forse perché nel fenomeno del turismo di massa e della nozione di “città turistica” che vi si connette si è tardato a cogliere la valenza epocale e il “post”, in questo come in molti altri casi, è valso da esorcismo. Di un’età del turismo, al contrario, parla Marco d’Eramo nel suo importante Il selfie del mondo (Feltrinelli 2017, pp. 254, euro 22). e invita farlo così come si è parlato dell’età del vapore, dell’acciaio o dell’età dell’imperialismo.
Trattare la questione in termini di età del turismo, per d’Eramo, non è un semplice modo di dire. Per molte ragioni. Una su tutte è cruciale e, soprattutto, decisiva nel guidare l’analisi di d’Eramo: il turismo è l’industria del secolo, ciò nonostante fatichiamo a percepirla come tale. L’industria principale, un’industria pesante, che impatta su sistema e ecosistema in maniera radicale e che, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 2015 ha generato ricavi globali per 1522 miliardi di dollari.
Il lavoro di Marco d’Eramo, fonte di grande erudizione e rigore, portando all’atto l’insegnamento del miglior Bourdieu, opera un ribaltamento di prospettiva: a dispetto di quanto troppo spesso si è disposti a concedere, il turismo non è solo un’industria e nemmeno un’industria pesante fra tante. Il turismo, spiega, dati alla mano, d’Eramo, è «l’industria più pesante, più importante, più generatrice di cash-flow del XXI secolo» e, come tale, «ci mostra quanto assurda è la contrapposizione tra moderno e postmoderno». In quanto “superfluo”, il turismo, nella lettura di Marco d’Eramo, rientra di diritto nel postmoderno ma, ecco il punto, «la sua materialità di acciaio, auto, aerei, navi, cementifici lo situa tutto dentro la pesantezza industriale del moderno».
Milioni di addetti, miliardi di dollari, innovazione tecnologica e forza lavoro bruta: eppure, continuiamo a considerare il turismo come un fenomeno tipico della postmodernità immateriale. Perché? Torniamo ai nostri turisti sorridenti davanti ai loro monumenti in replica. Torniamo alla nostra domanda: che cosa cercano? Che cosa li attrae? Che cosa li seduce? Che cosa li spinge a desiderare ancora, a desiderare di vedere, toccare, sentire ciò che già stanno toccando, sentendo, vedendo… ma in copia? Marco d’Eramo, nel capitolo di taglio, il nono, del suo importante lavoro sull’età del turismo, chiama questa “spinta” aura dell’autentico. Il turista o, per usare il termine di Maxine Feifer, il post-turista è sì soggetto che, osserva d’Eramo, «gioca il gioco dell’inautentico», ma in contemporanea e in parallelo a questa dimensione ludica è alla ricerca, ed è una ricerca «talvolta pressante, di una qualche autenticità».
I turisti cinesi che affollano The World e si ritrovano a passeggiare in una piazza San Marco che non è Piazza San Marco o si affannano a salire su una Tour Eiffel che non è la Tour Eiffel, poi risparmiano per anni, spesso indebitandosi nella speranza di poter passeggiare per la vera piazza San Marco o salire sulla vera Tour Eiffel. I turisti sanno benissimo che viene loro offerto qualcosa di inautentico, ma senza la nostalgia dell’autentico, senza questa ricerca di un inizio che non è all’inizio, ma alla fine di un percorso le città turistiche non sarebbero tanto affollate e non attrarrebbero milioni di visitatori intenti solo a non vedere. A non vedere ciò che meglio, con meno affanno e più cura del dettaglio potrebbero godersi da casa aprendo, con un gesto oramai banale e scontato, Google Earth in 3D. Eppure sono lì, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Magari migrando da parco a parco e da città a città, ma ci sono.
Se è vero – ed è vero – che questa nostalgia dell’autentico è una contraddizione che le multinazionali del settore turistico non sono riuscite a risolvere attraverso i fenomeni di riproduzione o “turistizzazione” dell’esistente, è altrettanto vero che esiste un luogo dove le stesse transnational corporations sono riuscite in una sorta di impianto totale, di innesto radicale, di edificazione (e già questo è un paradosso che la dice lunga) di un grado zero del turismo che, spiega d’Eramo, non scorre in parallelo a quel secondo grado che si colora di nostalgia. Tutt’altro. Questo luogo è Las Vegas, in Nevada. Città sorta letteralmente dal nulla nel 1905, sbucata in mezzo al deserto del Mojave e disegnata letteralmente a tavolino quando un lotto di 45 ettari venne messo all’asta accanto alla ferrovia della Union Pacific. Un luogo che, ci ricorda Marco d’Eramo, nasce ab origine con il solo mandato di sedurre, attrarre, stordire, accogliere i turisti e fare profitto. Un immenso profitto. Las Vegas non è il turismo al suo secondo grado, ma al suo degré zéro, ossia al suo più alto grado perché in potenza tutti li raccoglie: «qui a essere autentico è l’inautentico per eccellenza. O, viceversa, l’autenticità che si cerca è quella del perfettamente, totalmente, radicalmente inautentico».
Se pensiamo alla città come a un dispositivo e, nel caso di Las Vegas, a un dispositivo per produrre turismo ovvero – detto un po’ brutalmente – spostamento di masse capitalizzabili in un processo di estrazione di valore, allora la città che poi divenne sede dei traffici di Bugsy Siegel, di Howard Hughes, di Kirk Kerkorian e fu sottoposta agli strali della Commissione Kefauver, che sul tema del gambling legalizzato e frammisto all’entertainment (con il turismo congressuale la chiave del perdurante successo di Las Vegas) si trovò a indagare sulla possibilità di estendere il modello a tutti gli States, è un modello perfetto. Un modello perfetto e in evoluzione. Mutante eppure sempre ridotto a quel grado zero che non produce un autentico ma copie di copie, sempre uguali, sempre nuove.
Già nel 1976, nel suo riaggiornamento della teoria leisure class applicata al tipo-umano “turista”, Dean MacCannell spiegava come, dal loro comportamento, fosse evidente che negli ultimi trent’anni le mutinazionali «stanno diventando matte per venire a capo della relazione umana che è al cuore dell’industria più grande al mondo; cioè per venire a patti con il fatto che l’economia del sightseeing dipende in ultima istanza da una relazione non-economica», ovvero dal puro e mero fatto che il Gran Canyon esista o che l’alzaia sul Naviglio Grande di Milano sia diventata un’attrattiva, senza che nessuno li abbia pianificati creandoli per quello scopo.
A Las Vegas accade il contrario. Qui l’esperimento è riuscito in pieno. Deserto, luci, la costruzione di una diga che permise a una città senza risorse di accumularne e dissiparne a oltranza… Una gated community del desiderio senza fine, chiusa ma aperta se solo hai il denaro per andare e restare quel tanto che basta per spenderne o perderne (ma c’è differenza?) un po’.
Tutti i conti di Las Vegas
Alla fine dell'anno scorso, la capitale dell'azzardo, con le sue cattedrali farlocche e i suoi hotel e le sale slot innervate di azoto liquido per non far abbassare mai il tasso di ebrezza, poteva contare su un giro d'affari legato a 42 milioni di visitatori. Tanti coloro che, nel 2016, per divertimento, passione, disperata ricerca di un sogno o per partecipare a meeting, convegni, concerti hanno affollato la città del Nevada. Nel 1970, i visitatori erano poco meno di 7milioni. Las Vegas è falsa, ma Las Vegas è l’unico falso per definizione non falsificabile. Nessuno, qui, ha nostalgia dell’autentico. E quei rimandi alle grandi cattedrali del mondo (la Tour Eiffel, Venezia, etc.) non rimandano a un fuori, ma ricacciano dentro. Qui il turista che varca la soglia passando per una piramide non sogna l’Egitto, ma il retro di quella piramide: un casinò. E lo raggiunge.
Per questa ragione, d’Eramo insiste spiegando che proprio qui le cose vanno viste e capite a fondo e «le strategie che hanno messo in atto i progettatori di Vegas vanno studiate con il rispetto che si deve a ogni iniziativa riuscita».
Da Las Vegas, parafrasando il celebre libro-manifesto di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour c’è da imparare. Ma, forse, abbiamo imparato poco, anche perché Learning from Las Vegas (1972), ha fatto più da filtro che da lente. Se Venturi e Scott Brown hanno ammesso che Las Vegas è cambiata radicalmente, mutando rispetto alla «non città degli anni sessanta» che avevano studiato, non hanno forse compreso che, non tanto sui cambiamenti materiali, quanto sul linguaggio si è giocata la loro fondamentale incomprensione. Un’incomprensione che d’Eramo legge in questi termini: «a differenza di quel che dicono Venturi e Brown, i segni di Las Vegas non hanno nessuna funzione simbolica, metaforica, allegorica o decorativa, ma sono rigidamente funzionali. In realtà, non sono nemmeno segni, ma sono metonimie, o abbreviazioni o sigle».
In questo «regno della parte per il tutto», il Paris Las Vegas ha davanti a sé una piccola Tour Eiffel, il Luxor una piramide, il Venitian Casinò è annunciato dal campanile di San Marco e via di questo passo. Anzi, “sono” quella piramide, quel campanile, quella torre. Il marker diventa l’attrazione, non rimanda a nient’altro che a sé.
«L’iconografia di Las Vegas è funzionalità allo stato puro», marker che diviene oggetto immediato del suo sightseeing. Ma dove il ragionamento degli autori di Learning from Las Vegas si inceppa veramente, seguendo la puntigliosa rilettura di Marco d’Eramo, è ancora una volta sul tema del “post” e nella contraddizione irrisolvibile che il turismo incarna fra moderno e postmoderno. D’Eramo ci ricorda che 43 casinò di Las Vegas hanno più di 1000 dipendenti l’uno, 15 ne hanno fra 1000 e 2000, altri 15 tra 2000 e 3000, 13 vanno ben oltre i 3000. Poi ci sono 6 casinò che superano la soglia dei 6000 dipendenti, con il record di 8500 toccato dal Wynn Las Vegas.
Un casinò di Las Vegas ha quindi più lavoratori di una fabbrica di medie dimensioni, tanto che circa il 30% della forza lavoro della città ha un impiego diretto nel settore turistico.
Postmoderno nel moderno
Las Vegas è, così, un’oasi di postmodernità in un deserto di modernità. E viceversa. Con un dato interessante: Las Vegas è l’unica città statunitense dove la lotta di classe possa realmente dirsi organizzata e sindacalizzata. Forse perché i grandi impianti “produttivi” non possono essere delocalizzati, ma solo rilocalizzati secondo un principio – lo zoning – che d’Eramo analizza a lungo nel suo importante lavoro. Qui c’è gente che lavora e, come tale, si organizza, lotta. Ma, per quanto possa organizzarsi e lottare, chi li riconoscerà mai come tali, come lavoratori? Nello scenario del turismo globale, sono solo comparse.
Forse un domani, quando anche quest’epoca sarà arrivata al suo fine corsa (se diamo per certo che sia iniziata, dovrò pur finire), qualcuno si chiederà infine, né più né meno come facciamo noi, che cosa fosse il turismo. Anche domani, scrive d’Eramo, continueremo a spostarci ma forse «non sapremo più partire». Forse l’assuefazione al dislocamento, anche dai nostri corpi non solo dei nostri corpi, sarà tale che ogni movimento coinciderà con la loro stasi più completa. Quando questo avverrà, non è dato saperlo.
Ma se avverrà, sarà ancora una volta in ragione di quel principio dello zoning, che ha governato tutta la pianificazione urbana del XX secolo, che ha comportato la divisione della città in zone adibite a funzioni diverse. Uno zoning in declino ovunque in Occidente e che, spiega Marco d’Eramo, sul finale del suo lavoro, ha tradotto e ancora cerca di tradurre «in geografia urbana la struttura disciplinare della società, rende spaziale il monopolio esclusivo che ogni istituzione disciplinare esercita sull’individuo, mappa la scansione temporale della vita». Non è un caso, che questo principio ordinatore-regolatore delle discipline nel moderno sia in crisi proprio a causa dell’obiettivo che si prefigge: isolare i singoli cittadini, rendere difficile l’incontro, annichilire il dialogo. Non è parimenti un caso se, mentre Venturi e i suoi pubblicavano il loro Learning from Las Vegas, un ignoto ai più ex giocatore d’azzardo, Bill Friedman, diventato nel frattempo il guru della progettazione strategica degli ambienti di gioco stravolgeva radicalmente il modo di fare business con il machine gambling, proprio in quella città partendo proprio dallo zoning e dall’architettura funzionale (al profitto) degli interni.
Zoning
Mentre il mondo discuteva di come imparare da Las Vegas, i Friedman Casino Design Principles cambiavano radicalmente ciò che c’era da imparare. Solo che ad ascoltarlo c’erano solo i businessmen e noi siamo rimasti indietro. Non ce ne siamo accorti e, anche se il fatto che il mondo si avvii a diventare una immensa Las Vegas non è certo né comprovato, nemmeno il contrario lo è. Seguendo senza saperlo i dettami di Friedman sulla costruzione di «labirinti empatici» del divertimento, la società ha trovato il modo di connetterci isolandoci, di farci stare insieme ma soli. Diluendo il turismo nella vita di ogni giorno, osserva d’Eramo, «alla lunga farà sparire i turisti dal paesaggio quotidiano». Ci farà «sfiorare senza incrociarci, guardare senza vedere, ascoltare senza sentire alla ricerca di markers che ci segnalino un senso». Solo che un senso non c’è, anche a cercarlo tra le piramidi d’Egitto.
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