Distopie
L’estrazione, il carcere senza umanità
Abbiamo chiesto ai giovani della Scuola Holden di scrivere un racconto immaginando luoghi senza Terzo settore. Natalia Sinico, venticinquenne di San Donà di Piave (Ve), ci ha restituito uno spaccato sulle carceri, un luogo in cui niente nasce, ma tutti muoiono...

Cosa accadrebbe se, da un giorno all’altro, il non profit scomparisse? È questa la provocazione al centro del numero di marzo di VITA “Provate a fare senza”, se sei già abbonato, leggi subito qui; se vuoi abbonarti, puoi farlo da qui. E abbiamo chiesto a tre giovani della Scuola Holden proprio di scrivere un racconto immaginando luoghi senza Terzo settore. Ne sono usciti tre contributi sorprendenti, pieni di inventiva e di senso. Come quello di Natalia Sinico, 25 anni, che ha provato ad immaginare il mondo delle carceri italiane senza più nessuna umanità per i detenuti.
Sono le sette e mezza del mattino e ti svegli dove ti sei svegliato ieri e il
giorno prima e quello prima ancora. Hai dormito male come il giorno prima e quello prima ancora. Le luci sono rimaste accese, ti sei legato un calzino intorno agli occhi e sei riuscito a dormire forse un paio d’ore di fila. Non ti ha svegliato la luce, né i mugugni della stanza a fianco, ma le gocce di umido sulla coperta infeltrita e la puzza di muffa. I muri erano bianchi con qual-
che chiazza nera sugli angoli del soffitto quando sei entrato la prima volta in questa stanza, ora sono verdi e bagnati. Sollevi la coperta. Ti siedi sul letto e
muovi le dita dei piedi, sono raggrinzite e gelide, ma tu senti solo il dolore. Il freddo non lo senti più. Scendi dal letto, scavalchi uno dei tuoi compagni di stanza, accendi i tre fornelli elettrici e metti dell’acqua a scaldare. Fai due passi, ti abbassi i pantaloni e pisci, prendendo la mira sul bordo per non fare rumore. È bollente, pensi e un brivido di sollievo ti drizza i peli delle cosce. Ti lavi il viso con l’acqua ghiacciata del lavandino, lo stesso lavandino che usi per lavare il cibo, i piatti, i denti, le mani, i piedi, il culo da quando la doccia —un tubo che sporge dal muro — non funziona e la carta igienica non arriva più. Iniziano a svegliarsi anche i tuoi compagni, che non sono diventati tuoi amici e mai lo diventeranno. Siete in sette in nove metri quadri. Ci sono tre letti, uno a castello e uno singolo, e fate a turno in cinque, perché due di voi sono troppo anziani per dormire per terra.
Sono ormai le otto e mezza, perché la guardia apre un pezzo di porta. La guardi e vedi gli occhi divisi da una sbarra che si muovono per la stanza. Appoggia per terra una confezione di stuzzicadenti aperta e non richiude la porta. Li prendi e li appoggi sul lavandino. Intanto si alzano anche gli altri tuoi compagni, uno a uno vanno a pisciare. Ora tutte le carceri sono come San Vittore, prima quelle piccole non erano mica così, attacca il più anziano. Racconta la stessa storia ogni giorno. Ti racconta ogni giorno di quando c’erano il teatro, i laboratori di artigianato, la mensa in cui lui cucinava e le giornate passavano dignitosamente. Il mio amico Eugenio era diventato liutaio nella stanza in cui ora immatricolano i detenuti, ti dice. Ieri Eugenio si chiamava Ernesto, la scorsa settimana Enrico. L’unica cosa che non dimentica mai è che è morto. Si è impiccato, ha avuto un infarto, aveva un tumore. Tu non lo ascolti più. Immagini solo come potesse esserci un teatro in un luogo tanto ostile, in cui niente nasce e tutti muoiono.
La stanza, i corridoi puzzano di disinfettante e muffa, nei bagni, quando ancora erano aperti, c’era tanfo di fogna. Di Ernesti ne hai conosciuti anche tu tanti, ma non erano liutai. Era gente qualsiasi, o quasi, finita lì perché in questa vita non avevano potuto scegliere altro se non delinquere. Come è successo a te del resto.
Vai a prendere gli stuzzicadenti, gli altri si siedono, tranne il più anziano; ne prendi sei e ne spezzi uno. Li nascondi nel palmo chiuso della mano destra, lasciando uscire solo le punte. Ne pesca uno il secondo più anziano, poi il terzo, poi il quarto e così via. Tu sei l’ultimo, il più giovane. Hanno tutti un bastoncino integro tra le mani, tu nel pugno chiuso hai quello spezzato. Lo passi sul fuoco di un fornello e inizi a disegnare sul pavimento una griglia. Giocate ad un rudimentale gioco dell’oca, vi scambiate qualche battuta, pranzate, mettete a scaldare altra acqua per lavarvi alla buona in quella che dovrebbe essere una doccia, ma non lo è mai stata. Il più anziano continua a raccontare di teatri e laboratori, che non credi siano mai esistiti. Le guardie passano a controllare ogni
ora e lasciano nel via vai della giornata un cuscino in più. Il più vecchio lo rivendica e nessuno obbietta. È sera e arriva il momento in cui aspetti che si spengano le luci, ma le luci sono accese da giorni, settimane, forse mesi. Non ti ricordi più neppure che anche tu una volta in quel posto avevi partecipato a teatro, avevi preso il diploma, facevi i turni in mensa e avevi i piedi caldi e i calzini asciutti e potevi urinare rumorosamente e cagare da solo nei bagni, sebbene zozzi e rivoltanti.
Passa una guardia, controlla, ti fa un cenno con la testa. Senti due passi, si spegne la luce nella tua cella e senti proseguire il ticchettio delle scarpe. È tutto silenzioso, non è mai stato così silenzioso, pensi. Se c’è una cosa che ti ricorderai sempre del carcere è il rumore. I tacchi delle guardie, le chiavi che penzolano, le mandate, le urla, i respiri affannosi dei tuoi compagni, i fornelli, le chiacchiere continue. Sei sempre solo, eppure non sei mai da solo.
Dorme solo il più anziano, lo senti russare e stringi al petto la lettera di tua sorella, l’ultima che hai ricevuto a cui non hai mai risposto. Dice che ha saputo delle nuove attività carcerarie, che spera tu sia contento, appena riapriranno le visite verrà a trovarti. È fiduciosa, la popolazione carceraria si sta riducendo, soprattutto gli anziani. Fuori non sono così fortunati, dice. C’è appena un poco di luce che entra dal corridoio, è quasi buio dopo tanto tempo, guardi lo stuzzicadenti a metà annerito e consumato; ti alzi, ti avvicini al letto del più anziano, gli sfili il cuscino da sotto la testa e glielo premi con forza sulla faccia. Si sveglia e tu premi più forte. Si dimena, scalcia e tu premi e premi e premi ancora. Ha degli spasmi, sono sempre più lievi e sai che è questo il momento in cui devi metterci ancora più forza. I versi non li senti, non svegliano più nessuno.
Avrai un cuscino e qualche razione di cibo in più per qualche giorno. Domani mattina arriveranno la guardia ed un medico, scriveranno il numero di matricola e la causa del decesso. Impiccagione, arresto cardiaco, tumore, poco importa.
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