Economia
L’esperienza di Good Finance e la fatica del “condividere”
La piattaforma inglese oltre ad essere interfaccia verso il mercato, si offre come “stanza di compensazione” utile a riallineare i codici comunicativi e le intenzioni all’interno di un ecosistema che vede la presenza di una pluralità di istituzioni spesso disallineate
C’è un problema di post verità anche per l’impact finance? La stessa tendenza, sempre più diffusa, ad anteporre premesse di valore, sensazioni, sentito dire, lasciando in secondo piano dati esperienziali e di performance che scaturiscono, in questo caso, da una industry che fin dal suo apparire ha scaldato il dibattito tra fautori e detrattori? Se è così il portale goodfinance recentemente lanciato nel Regno Unito può rappresentare un valido contributo alla soluzione del problema.
In primo luogo guardando ai promotori: una coalizione ampia ed eterogenea che tiene assieme le tre componenti fondamentali dell’ecosistema di finanza sociale: la domanda di risorse finanziarie rappresentata da charities e imprese sociali, l’offerta – un complesso variegato di fondi pubblici, istituti bancari, investitori informali – e le agenzie che hanno il compito, cruciale, di intermediare, lavorando sulla crescita (scaling) di progettualità come investimenti e adattando gli strumenti finanziari per taglia e modalità di sostegno (mixando grant, finance ed equity).Una sorta di piattaforma che oltre ad essere interfaccia verso il mercato, si offre come “stanza di compensazione” utile a riallineare i codici comunicativi e le intenzioni all’interno di un ecosistema che vede la presenza di una pluralità di istituzioni spesso disallineate.
In secondo luogo il sito non è solo una vetrina di prodotti – comunque importante e in questo caso ben allestita – ma soprattutto un database di progetti suddivisi per settore, territorio, oggetto dell’investimento, ammontare e tipologia delle risorse mobilitate. È questo il miglior antidoto sia per ridurre lo scontro tra fazioni sul piano della concretezza e dell’efficacia delle realizzazioni, sia per alimentare l’ispirazione e per favorire il trasferimento dell’innovazione prodotta apprendendo da esperienze diverse. Infine c’è un’interessante dimensione di capacity building presente in questa esperienza, volta a favorire un utilizzo consapevole ed efficace delle risorse finanziarie attraverso un questionario – semplice ma efficace – che consente di profilare i soggetti potenzialmente interessati a richiedere risorse per finanziare il loro sviluppo.
Non male davvero. Con poche modifiche potrebbe essere utilizzato anche in Italia in una fase in cui domanda e offerta di finanza crescono e si differenziano, ma ancora faticano a trovare un punto di contatto, se non in alcuni specifici segmenti, come ad esempio le cooperative sociali (di inserimento lavorativo in particolare) o l’ambito della rigenerazione immobiliare per scopi di natura sociale e comunitaria. Si potrebbe fare quindi, a patto di fare la fatica di condividere, quasi come un bene comune, dati e informazioni in una logica ispirata a due macro fattori strettamente collegati: la capacità d’investimento e l’orientamento all’impatto sociale. Investire postula infatti l’assunzione di rischio e l’orientamento imprenditoriale, capace di generare un “ritorno” sia in senso stretto (monetario) sia in senso più ampio cioè in termini di trasformazione sociale,economica e culturale (impatto). ll naturale esito di una riforma normativa che è ispirata, guarda caso, proprio a questi principi guida e che senza l’affermarsi di progetti fra “diversi”, rischia di lasciare la norma giuridica separata da quella sociale.
*Paolo Venturi è direttore di Aiccon e Flaviano Zandonai è segretario di Iris Network
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