Vorrei proporre ai lettori di questo blog una riflessione che ho scritto per Avvenire (edizione di sabato 30 ottobre) sul caso di Paul Rusesabagina. Si tratta del famoso protagonista della vicenda che ha ispirato il film “Hotel Rwanda”. Com’è noto, nel 1994 questo signore aprì coraggiosamente le porte dell’albergo che gestiva a Kigali ai propri connazionali perseguitati dalla pulizia etnica. Una testimonianza, la sua, che ha fatto davvero il giro del mondo, rendendolo paladino dei diritti umani nel suo Paese.
Ebbene, l’uomo che venne premiato nel 2005 dall’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush con la medaglia per la libertà non sarebbe più un eroe, ma un terrorista. Secondo Martin Ngoga, procuratore generale di Kigali, sia Rusesabagina come anche Victoire Ingabire, strenua oppositrice del governo ruandese, avrebbero avuto contatti con i ribelli hutu delle Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr) allo scopo di reclutare nuove milizie. Premesso che nel 2008 qualcuno aveva già tentato d’infangare l’immagine di Rusesabagina, accusandolo di essersi fatto pagare dagli sfollati nel suo albergo vitto ed alloggio (cfr. Alfred Nwahiro e Privat Rutazibwa, Hotel Rwanda ou le genocide des tutsis vu par Hollywood, Editions L’Harmattan), questa vicenda va davvero presa con beneficio d’inventario. Anzitutto, perché è risaputo che il sistema giudiziario ruandese risente ancora oggi non poco dei condizionamenti impressi dall’attuale leadership politica. Vi è poi da considerare che coloro che hanno testimoniato contro l’ex direttore dell’Hotel Mille Colline sono curiosamente tutti appartenenti a una stessa famiglia. Tutti personaggi che – stando a quanto riferito dallo stesso Rusesabagina – in cambio delle accuse avrebbero ricevuto in regalo dal governo ruandese terreni un tempo di sua proprietà. Inoltre, Rusesabagina è oggi tra i più decisi oppositori dell’attuale regime e questo naturalmente infastidisce non poco il presidente Paul Kagame, istintivamente allergico a qualsiasi forma di critica mossa nei confronti del proprio operato. Emblematica, a questo riguardo, è la pubblicazione del rapporto «Mapping human rights violations 1993-2003», stilato dall’Alto commissariato Onu per i diritti umani e frutto di una lunga inchiesta avviata dopo il ritrovamento di tre fosse comuni nel Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo), alla fine del 2005. Il documento, che già prima della sua data di pubblicazione, il primo ottobre, aveva mandato su tutte le furie Kagame, parla di «attacchi sistematici» delle forze ruandesi contro i rifugiati hutu, «così come pure contro i civili congolesi», che potrebbero essere qualificati come «genocidio», «se comprovati davanti ad un tribunale competente». A questo proposito va ricordato che non è un caso se il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non rinnovò nel 2003 l’incarico a Carla Del Ponte, che guidava la procura del Tribunale penale per i crimini in Rwanda. L’ipotesi di aprire inchieste anche sul Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Kagame – preannunciata dal magistrato elvetico – suscitò infatti le ire del regime di Kigali, che riuscì abilmente a fare pesare le sue influenti amicizie a Washington e dintorni.
In definitiva, se da una parte è vero che a morire in Rwanda, dall’aprile del 1994, furono prima centinaia di migliaia di tutsi, l’etnia minoritaria vessata impunemente dalle milizie Interahamwe, oltre a un numero non indifferente di hutu moderati, il gruppo etnico demograficamente maggioritario e fino ad allora dominante; dall’altra, è innegabile che si arrivò poi alla vendetta dei vincitori, i quali passarono all’arma bianca non solo i loro acerrimi nemici, ma anche tantissimi profughi hutu, perpetrando una vera pulizia etnica, soprattutto nelle foreste dell’ex Zaire. Una cosa è certa: sarebbe un grave errore continuare a dividere lo scenario ruandese tra ‘buoni’ e ‘cattivi’. Forse sarebbe ora che qualcuno suggerisse a Kagame la creazione di una Commissione riconciliazione e verità, come quella creata per superare in Sudafrica gli anni delle angherie del regime segregazionista. Altrimenti, l’agognata riconciliazione nazionale in Rwanda rimarrà un miraggio.
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