Welfare

L’epidemia dei suicidi nelle carceri italiane ha un vaccino?

Dall’inizio del 2022 si sono tolte la vita in carcere già quasi 30 persone. Secondo l’avvocata Antonella Calcaterra «Il problema principale è il funzionamento del sistema carcere che ha lunghe liste di attesa per i detenuti con disturbi mentali prima di ricevere le cure specialistiche»

di Luca Cereda

Nelle ultime settimane due giovani uomini, entrambi detenuti nel carcere milanese di San Vittore, si sono tolti la vita: si tratta di Abou El Mati, italiano di origine egiziana, aveva 24 anni. E Giacomo Trimarco, che di anni ne aveva 21, e in carcere non doveva nemmeno starci. Già 15 giorni prima aveva tentato il suicidio e da otto mesi era stato destinato a una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che dal 2014 hanno progressivamente sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Il problema è che le Rems sono poche (sol 36) e i posti disponibili sono meno di quelli di cui ci sarebbe bisogno. «Non essendoci posto, come nel caso di Trimarco, queste persone vengono portate dove non dovrebbero: in carcere», spiega l'avvocata Antonella Calcaterra, peraltro difensore di una delle due vittime.

Il quadro della situazione

«Il fenomeno dei suicidi in carcere è una delle grandi "malattie" del sistema carcerario italiano – aggiunge avvocata Calcaterra -. Dall’inizio del 2022 si sono tolte la vita in carcere già quasi 30 persone. I suicidi in cella sono stati almeno 54 nel corso del 2021, più di 60 nel 2020. Si tratta solo dei suicidi accertati: ma per molte morti in carcere la causa è difficile da attribuire con precisione. Sono numeri inaccettabili in uno Stato di diritto».

Sono giorni che in molti, anche colleghi avvocati e magistrati, che le chiedono cosa stia succedendo a San Vittore con due giovanissimi che si sono tolti la vita in meno di una settimana: «Rispondo così. La presenza di persone con forme di sofferenza mentale, spesso con doppia diagnosi, nell’Istituto milanese ha raggiunto livelli molto preoccupanti e la condizione detentiva non fa che acuire il problema. Le Rems hanno lunghe liste di attesa e l’intervento psichiatrico in carcere è totalmente insufficiente. I servizi territoriali per la salute mentale non riescono a garantire un intervento adeguato e la continuità terapeutica. Resta la positiva esperienza dei centri diurni attivi all’interno degli istituti penitenziari milanesi, ma senza una forte ed effettiva collaborazione con i servizi pubblici per la salute mentale e senza un potenziamento degli interventi della sanità all’interno degli istituti, con una più adeguata presenza di psicologi e psichiatri, sarà impossibile evitare tragedie come queste».


Mesi, anni di attesa…

Trimarco aveva una diagnosi di “disturbo borderline di personalità a basso funzionamento”, incompatibile con il carcere. Era stato arrestato nell’agosto del 2021 per il furto di un cellulare. La disposizione di trasferirlo in una Rems era stata inoltrata a ottobre 2021: eppure ancora il 31 maggio 2022, giorno del suicidio, non era stata trovata una collocazione disponibile. «Se i servizi di salute mentale facessero il loro dovere, questi ragazzi al carcere non arriverebbero neanche», hanno detto i genitori di Trimarco al Corriere della Sera. «Non sono criminali. Per le loro condizioni psichiche non sarebbero neanche in grado di progettare reati».

Secondo dati del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in tutta Italia i detenuti in attesa di entrare in una Rems sono 750. Il tempo medio di attesa è di quasi un anno, 304 giorni. Ma ci sono regioni come Puglia, Campania, Calabria, Lazio e Sicilia dove arriva a 458 giorni. A gennaio la Corte costituzionale ha scritto in un documento che è necessario «il potenziamento e la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente», «in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività». Servirebbe, insomma, una nuova e apposita legge.

Suicidi, tentati suicidi e autolesionismo

Quello di suicidi, dei tentati suicidi e dell’autolesionismo è un altro grave problema nello stato di salute – non ottimale, anzi – del sistema penitenziario italiano, secondo il rapporto dell’associazione Antigone sulla situazione del 2021. Ogni anno in carcere si tolgono la vita 60 nel 2020, 57 nel 2021 con un rapporto pari a 10,6 suicidi ogni diecimila detenuti. Fuori dal carcere i suicidi sono 0,6 ogni diecimila cittadini. Secondo Antigone, dal Dap dicono che i tentati suicidi e gli atti di autolesionismo sono molti molti di più: 11.315 episodi di autolesionismo nel 202: 20 ogni cento detenuti. In alcune situazioni si è arrivati quasi al cento per cento di casi di autolesionismo.

Questo è – in parte – dovuto anche al fatto che il 40 per cento degli istituti di pena è stato costruito prima del 1950, un quarto prima del 1900. E quelli più moderni (anni 70-80) corrispondono a un'idea della pena molto arretrata: parallelepipedi di cemento e acciaio buttati in campagne desolate nelle immediate periferie delle città: lontani dagli occhi e dal contesto sociale. Il contrario di quello che sarebbe necessario. E dentro, non sono molto meglio: nel 5 per cento degli istituti ci sono ancora i water nelle celle a vista. Il regolamento del 2000 ne prevedeva la fine entro il 2005. Ma sono ancora lì rendendo le carceri e le celle invivibili.

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