Cultura

L’Elfo, storia di un luogo inclusivo

Il fondatore del teatro milanese, diventato impresa sociale, ne racconta le ragioni

di Redazione

di ELIO DE CAPITANI

Lavoriamo a Milano dal 1973, con ostinazione. Molti di noi non sono milanesi ma sono fuggiti da varie parti della provincia italiana. Ci siamo ritrovati qui, a cavallo tra il ’68 e gli anni di piombo. Avevamo vent’anni e la città allora era per noi la libertà di vivere e di guadagnarci da vivere come volevamo. Il teatro è la nostra arte e l’arte è il solo strumento che avevamo, e ancora oggi abbiamo, per dare un senso e un progetto alla nostra vita in questa città,

Il progetto Elfo non mai stato quello di un teatro esclusivo ma un luogo inclusivo: l’enzima dell’arte può agire socialmente, il più gran dono che l’arte può fare alla vita in un’epoca come questa: scegliere ogni volta qualcosa di sempre meno rassicurante, ottenendo il premio dell’intuizione, della scoperta, della sorpresa, del turbamento, l’avvio di un mutamento che genera nuovo pensiero, nuovo comportamento, nuova consapevolezza, disponibilità al nuovo. Abbiamo un segreto che abbiamo custodito, in questi anni frastornanti, un segreto che nessuno ci può rubare ma che pure è a disposizione di tutti, di Milano e della sua voglia di cambiamento. Questo segreto ha molti nomi comuni – ensemble, equipe, gruppo, collettivo, compagnia – e un suo nome proprio, che ne incarna soavemente i principi in bel suono: Elfo. Ci siamo tenuti stretti il nostro collettivo anche negli anni in cui era fortemente sconsigliato, come lo era tutto quello che non fosse individuale, individualista e individuabile.

Ci dicevano che era un gusto difficile quello del fare le cose insieme, che saremmo presto esplosi o implosi, crollati comunque. Ci siamo fidati – invece – del nostro istinto. Che ci conduceva ad un futuro, che non era proprio dietro l’angolo, da costruire con una fatica certosina. Oggi siamo diventati impresa sociale, eccolo qui, il futuro-presente di quel gruppo d’amici, di Ferdinando e Ida, di Fiorenzo e di Cristina, di Luca e di Corinna, di Elena e di Elio, di Roberto e di Rino e di tutti gli altri cento che vi lavorano da un’ anno o da trenta: l’Elfo Puccini, teatro d’arte contemporanea, casa nostra e, assieme, di tanti senza casa del teatro. Perché, ovviamente, anche di questo teatro vogliamo fare un bene collettivo. Perché lo snodo ora diventa un grande hub e Milano se ne è già accorta.

Un amico che si occupa di finanza etica (quasi un ossimoro di questi tempi) mi ha chiesto se l’arte, il teatro, dovesse esprimere anche dei valori da comunicare la pubblico. Non l’ho considerata una domanda né ingenua né banale, ma nodale per la funzione dell’arte scenica. Ho risposto citando Shakespeare, che fa dire a Bassanio, nel Mercante di Venezia: “l’aspetto delle cose spesso inganna e sempre l’ornamento inganna il mondo” e che uno degli ornamenti più ingannevoli è spesso la parola “valori”, con cui ci si riempie la bocca, senza pensare che i valori non sono feticci eterni, ma nascono – sempre – dall’esperienza di un male concreto e dalla volontà di evitarlo nel futuro. Isolare un valore dal processo che lo ha generato può significare renderlo ornamentale, vacuo, se non controproducente. Il grande teatro non mostra subito un valore: Shakespeare ci insegna a non combattere mai il pregiudizio ideologico con un suo simmetrico opposto, pena l’insignificanza sociale della nostra azione. E questa non è forse una lezione anche per noi, oggi? Ovunque decida di andare il nostro paese, soprattutto se decide di andare a remengo, occorreranno posti attrezzati per non perdere il senno e continuare voler vivere con la gioia della libertà vera, quella del pensiero. Questo è un teatro vivo.

 

 

 

 

 

 

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