Parecchi sono i meriti che gli autori di questa ricerca, voluta da UniCredit Foundation, hanno saputo guadagnarsi. In primo luogo, per il rigore analitico con cui hanno condotto l’indagine empirica e per la capacità di lettura di una realtà così complessa e variegata quale quella del non profit italiano. La scelta dell’economia civile quale prospettiva di sguardo sul terzo settore è già di per sé un elemento di originalità e di notevole progresso teorico rispetto alle chiavi di lettura di provenienza anglosassone.
In secondo luogo, aver focalizzato l’attenzione sulla valenza economica del terzo settore contribuisce a fare chiarezza su questo mondo vitale. Troppo spesso, infatti, si tende a “mischiare” tra loro valore economico, valore sociale, valore culturale del terzo settore. Il che non solamente non giova a definire l’identità specifica dei vari segmenti del non profit, ma soprattutto non aiuta di certo il legislatore a varare leggi espressive sul settore. (Sono tali le leggi che sono confezionate in modo da tener conto delle esigenze specifiche e delle peculiarità dei soggetti che devono poi rispettarle. Come è noto, la compliance è direttamente proporzionale al grado di espressività delle leggi).
I risultati che la ricerca ci restituisce dicono, a tutto tondo, che il terzo settore italiano è nelle condizioni di poter contribuire ad accrescere le productive capabilities del nostro sistema produttivo. È risaputo ? o così dovrebbe essere ? che è soprattutto il capitale di connessione, molto più del capitale umano, ad allargare lo spettro delle capacità produttive di una economia, determinando in tal modo significativi aumenti di produttività e perciò di competitività. Ebbene, il terzo settore non è secondo a nessun altro ente nella generazione di capitale di connessione.
È in ciò il cuore del suo valore economico, un valore che, purtroppo, non viene ancora adeguatamente valorizzato, proprio perché non riconosciuto. C’è poi un altro importante risultato che la ricerca ci consegna: il nostro terzo settore ha raggiunto livelli e modalità di azione tali da permettere l’attuazione del modello di sussidiarietà circolare che rappresenta, nelle condizioni odierne, la via pervia, anzi unica, per dare ali al nuovo welfare. Invero, se si vuole conservare l’impianto universalista del welfare e, al tempo stesso, si vuole farla finita con il modello assistenzialistico-paternalistico che abbiamo ereditato dal recente passato, non c’è altra via che quella di prendere sul serio il principio di sussidiarietà circolare, che va oltre la mera sussidiarietà orizzontale.
È degno di nota che già Alexis de Tocqueville, in un saggio poco noto, ma di notevole spessore (Il Pauperismo, 1835), avesse compreso che «esistono due tipi di beneficenza: la prima induce ogni individuo ad alleviare, a misura delle sue possibilità, il male che trova alla sua portata. Essa è antica come il mondo? La seconda, meno istintiva, più ragionata, contraddistinta da minor passione ma spesso più efficace, induce la società civile stessa ad occuparsi delle avversità dei suoi membri e a provvedere in modo sistematico all’attenuazione delle loro sofferenze». Come si comprende, è qui anticipato l’argomento secondo cui la sussidiarietà postula una società civile bene organizzata se si vogliono “attenuare le sofferenze” dei cittadini. Grazie dunque a UniCredit Foundation per aver saputo radunare attorno ad un progetto di ricerca, importante ed innovativo, studiosi cui va il merito di averci mostrato come sia fattualmente possibile accorciare quel “sentiero” di cui parla il “pessimista” Martin Heidegger quando scrive: «Come è lungo ogni sentiero che passa per la prossimità».
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