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Legge editoria: la sua “ratio”

Un commento alla legge sull'editoria di Luca Bernardini, avvocato

di Redazione

Alla ricerca di un motivo La ratio è quel qualcosa al quale gli operatori del diritto cercano di risalire per interpretare al meglio quanto il legislatore intende perseguire con l’emanazione di una determinata norma. La nuova legge sull’editoria, con l’estendere a qualsivoglia “prodotto editoriale” talune delle previsioni da lungo tempo applicabili alla stampa, sembrerebbe voler adottare anche per i contenuti Web un sistema che consenta di individuare agevolmente una figura responsabile delle informazioni diffuse attraverso un sito (direttore responsabile), nonché in alcuni casi di registrare (testata registrata) chi con tale mezzo diffonde informazioni aventi talune caratteristiche. La finalità perseguita potrebbe non essere ritenuta in se’ discutibile e, ove fosse considerata tale, sarebbe probabilmente inutile qualsiasi confronto perché rischierebbe di essere messa in discussione alla radice quella finzione costituita dal patto sociale che si manifesta nelle norme ed aspira a regolare il vivere civile. Assumendo per economia di discorso che sia condivisibile che chiunque può dire ciò che vuole purché se ne assuma la responsabilità, se si vuole, Internet potrebbe essere considerato il mezzo migliore per dare pienezza al principio di libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’art. 21 della nostra Costituzione in quanto, tendenzialmente, fa in modo che non si opponga una barriera di carattere economico all’esercizio di tale libertà nei confronti di una platea potenzialmente enorme di destinatari della comunicazione. Conseguentemente, se risulta condivisibile che la libertà di manifestazione del pensiero non incontra un ostacolo nella possibilità di individuare la fonte, potrebbe dirsi che in principio una norma che persegua la finalità di tutelare la comunità da un’inondazione di informazioni potenzialmente dirompenti senza poter individuare il soggetto che delle medesime si debba assumere la responsabilità potrebbe non essere accolta necessariamente con sfavore. Qual è il problema Il problema è che per disciplinare la materia si è voluto ricorrere a strumenti che, oltre che nati per regolare fenomeni diversi, probabilmente dovrebbero essere messi in discussione alla radice. Forse, e questa potrebbe essere l’occasione per tornare su una questione già da più parti sollevata, a dover essere messo in discussione è il concetto stesso di giornalismo professionale con le conseguenze che l’esistenza dei relativi albi ha sulla disciplina della stampa. Una commistione di interessi corporativistici dei giornalisti attenti a difendere alcuni privilegi e di norme vecchie di oltre cinquanta anni, quando esigenze di “economia legislativa” erano indubbiamente diverse dalle attuali, hanno portato nel 1948 ad una legge sulla stampa che ad oggi risulta sostanzialmente immutata, e che con la nuova legge sull’editoria estende vieppiù il suo raggio di azione. Se tale legge risulta inattuale per la carta stampata, inutile dire che sorprenderebbe considerarla pienamente compatibile con il modo nel quale circolano oggi le informazioni attraverso la Rete. Il problema dovrebbe forse essere individuato in un’altra ratio che potrebbe essere sottesa alle norme di recente emanazione. Il dubbio legittimo è che le pressioni corporativistiche di chi voglia mantenere ancorata all’iscrizione ad un albo la dignità di giornalista, unite a quelle di quanti intendano beneficiare di fondi pubblici (o dispensarne) per fare informazione, hanno vinto sullo sforzo che si sarebbe potuto fare per regolare ex novo la materia. Peraltro, le prime interpretazioni autentiche della legge sembrano individuare proprio nella possibilità di accedere alle provvidenze in favore dell’editoria la corretta, ma allo stato purtroppo non unica, chiave interpretativa dell’impianto normativo. Forse, non assimilare l’informazione tramite Internet a quella su carta stampata (il che sarebbe evidentemente paradossale) sarebbe equivalso a mettere in discussione il senso stesso di quelle norme che, con il pretesto di garantire i lettori quanto a qualità e provenienza dell’informazione, altro non fanno se non difendere gli interessi di alcuni centri di potere. Conclusione Con il rischio di semplificare all’estremo l’analisi, l’unica esigenza che appare legittima sembrerebbe quella di garantire alla comunità non la qualità dell’informazione, concetto peraltro relativo al punto da rischiare di essere svuotato di contenuto, bensì la possibilità di risalire a chi la abbia diffusa. E per fare ciò basterebbe una legge che, per raggiungere il risultato della trasparenza dell’informazione e il sostegno pubblico per certe iniziative, non ricorra necessariamente a tribunali e, più o meno direttamente, ad albi che tutelano interessi comunque privati. Sorge spontaneo il dubbio che qualsiasi altra esigenza non sia altro se non il frutto di principi che sono sì anch’essi previsti dalla nostra carta costituzionale, ma non come per l’art. 21 sotto il Titolo I, dedicato ai rapporti civili, bensì al Titolo III, sui rapporti economici. Resta tuttavia il fatto che qualunque sia il Titolo della Costituzione che interessa realmente questa vicenda, uno dei Principi Fondamentali della nostra Norma fondante impone alla Repubblica “di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese“, ed è fuori discussione che la lettura della nuova legge sull’editoria apparentemente non consente di ritrovare tale spirito.


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