Famiglia

Legalità e carità: valori in contrapposizione o possono andare d’accordo?

Per Stefano Zamagni, docente di Economia politica a Bologna e intellettuale cattolico, è sbagliato opporre i due valori: la legalità senza carità diventa legalismo, o giustizialismo

di Riccardo Bonacina

Prima l?intervista, persino un po? razzista, del filosofo Emanuele Severino che accusa: «Forse la Chiesa non si rende conto delle conseguenze dei suoi gesti caritativi»; poi l?editoriale di Gaspare Barbiellini Amidei sul Corriere della sera, intitolato «Se carità fa rima con illegalità». Il tutto, condito dall?allarmismo dovuto ai quattro omicidi che, nel bresciano, hanno visto protagonisti degli extracomunitari e dalle solite discussioni e dibattiti in formato ?barsport? sui media. Certo è che il nodo culturale è decisivo: che rapporto tra due valori così profondamente civili come ?carità? e ?legalità?? Un nodo che, malgrado Benedetto XVI vi abbia dedicato la sua prima enciclica, Deus caritas est, non pare digerito neppure dal mondo cattolico. Tant?è vero che Barbiellini Amidei si chiede: «Davvero il cattolicesimo bresciano, fiore all?occhiello del liberalismo europeo, può avere smarrito consapevolezza dell?improponibilità di gesti caritativi fuori dalla legalità? (?) Qualcosa forse non funziona nel rapporto fra accoglienza, solidarietà cristiana e metabolismo della città se uno scrittore di spessore internazionale come Severino confessa tanto allarme (?A Brescia io da anni non esco più dopo le otto di sera, non lo fa nessuno?)». Chiediamo a Stefano Zamagni, economista cattolico e attento osservatore anche dei fenomeni sociali, di aiutarci a sciogliere il nodo. Vita: Legalità e carità sono dunque due valori destinati al bisticcio o possono, invece, andare d?accordo? Stefano Zamagni: Per rispondere bisognerebbe almeno intendersi su un punto: la dottrina sociale della Chiesa non è una teoria morale ulteriore, ma una grammatica comune per quelle già esistenti, perché fondata su uno specifico, quello del prendersi cura del bene umano. Le diverse teorie etiche che oggi vanno per la maggiore si dividono in due tipi: da una parte quelle che pongono il loro fondamento nella ricerca delle regole, come accade nel giusnaturalismo positivista secondo cui l?etica viene mutuata dalla norma giuridica. Ovvero la legalità fonda l?etica. Dall?altra, invece, ci sono quelle che si fondano sull?agire e perciò vanno alla ricerca di quelle regole che meglio assicurano la convivenza come la teoria utilitaristica (è l?utile il fondamento della legalità e dell?etica) o quella neo contrattualistica (il fondamento della convivenza è la giustizia). Ebbene, la dottrina sociale della Chiesa si distacca e differenzia sia dalle une che dalle altre perché parte dall?idea che il fondamento dell?etica consista nello ?stare con?. Socrate nella sua Apologia spiegò benissimo questo nodo: ai suoi accusatori disse «So di aver ragione ma so anche che non sono riuscito a convincervi perché non abbiamo vissuto insieme». Per convincere occorre convivere. Ecco, dal mio punto di vista l?aspetto più interessante dell?approccio cristiano: convivere per convincere. Ciò significa che l?etica, prima ancora di suggerire principi e stabilire regole, è una dimora, una casa in cui ci si prende cura di sé e degli altri, cioè ci si prende cura del bene umano. Ecco allora perché la cifra di questo tipo di etica si colloca nella prospettiva dell?uomo che agisce e non nella prospettiva neutra della terza persona (giusnaturalismo) e neppure nella prospettiva dello spettatore imparziale (l?etica nelle mani dei giudici). San Tommaso, del resto, aveva già detto che il bene morale è una realtà pratica e dunque lo conosce veramente non chi lo teorizza ma chi lo pratica. è lui che sa individuarlo e sceglierlo con certezza. Ecco perché il pensiero cattolico accoglie l?idea del primato del bene sul giusto come già Aristotele aveva affermato in opposizione a Platone, che invece difendeva il primato del giusto. Questo significa che l?obiettivo ultimo della dottrina sociale della Chiesa è quello dell?ordine sociale non solamente giusto, ma anche fraterno. Per cui l?agire politico e la legalità non possono essere concepiti solo nei termini di tutto ciò che serve ad assicurare la convivenza sociale, ma anche, e soprattutto, nei termini che riescono ad assicurare la vita in comune. Vita in comune e non comunanza. Già Aristotele aveva compreso questa differenza, altrimenti, scriveva, la comunanza è quella del pascolo che è propria degli animali: stanno insieme ma ognuno porta via il cibo agli altri, cioè non rispetta la legalità. Nella società umana, invece, il bene di ognuno può essere raggiunto solo con l?opera di tutti, e il bene di ognuno non può essere fruito se non lo è anche dagli altri. Ecco perché contrapporre legalità e carità è un non senso, o ha un senso solo per chi non conosce i fondamenti della dottrina sociale della Chiesa. Dire che c?è un primato del bene sul giusto vuol dire rafforzare la legalità non diminuirla, ma rafforzarla nel senso che la legalità non può limitarsi a regolare il pascolo degli animali (a meno che sia questo il mondo che vogliamo), ma per garantire la vita in comune, una vita in cui il mio bene dipende anche dal tuo. Sottolineare tutto questo è importante perché, purtroppo, anche in ambito cattolico si tende a dare del principio di carità un?interpretazione riduttiva, cioè a dire l?elemosina. Vita: Il tentativo ricorrente di provare a rendere superflua la carità o di ridurla entro la legalità (sia essa utilitaristica o neo contrattualistica) quanto è pericoloso? Zamagni: Senza la carità la legalità diventa legalismo, cioè giustizialismo. Basta ricordare cosa avvenne dopo la rivoluzione francese con l?avvento del giacobinismo: la parola fraternità, che pure stava nella bandiera, viene cancellata, rimossa. La norma legale se non ha il suo fondamento nella vita in comune si traduce nella sua sconfitta. Non solo legalità e carità non sono in contraddizione, ma non deve neppure cercarsi l?equilibrio perché carità e legalità non sono valori comparabili, la carità è un principio superiore nel senso che io posso avere una società in cui la legalità è praticata non nell?orizzonte della fraternità (quante ne abbiamo viste) ed è una società inumana, che è molto peggio di disumana. Dove c?è carità c?è anche legalità, ma non vale il contrario. In definitiva, il pensiero cattolico non è mai contro la legalità, è vero esattamente il contrario: ha tanto a cuore la legalità che la mette nella prospettiva della carità, perché solo la carità riesce a far trovare delle soluzioni ?umane?. Vita: Perché, invece, in molti continuano a pensare ai due termini in opposizione? Zamagni: Perché si continua a confondere bene comune e bene totale. Cioè la nostra cultura è talmente intrisa di utilitarismo filosofico che tutte le volte in cui si parla di bene comune il pensiero corre al bene totale. Il bene totale è la sommatoria dei beni individuali, il bene comune è, invece, la produttoria dei beni individuali. Cioè il bene comune non è mai la somma dei tanti interessi egoistici ma il moltiplicatore del bene individuale (produttoria significa proprio il prodotto, in termini matematici). Nella logica del bene comune non è accettabile alcun principio di sostituzione, cioè mentre nella logica del bene totale io posso pensare di sacrificare il tuo bene pur di aumentare il mio, nella logica del bene comune questo non è ammissibile, non è ammissibile che il bene foss?anche di uno solo venga sacrificato per aumentare il bene di un altro. Perché in un prodotto, in una moltiplicazione, se un fattore diventa zero manda a zero anche il risultato, mentre nella somma se anche un fattore è zero il risultato non cambia. L?utilitarismo ci ha insegnato purtroppo a massimizzare il bene totale. Vita: La discussione sul rapporto tra legalità e carità si solleva sempre a proposito di immigrazione. Qualche anno fa era La Padania, oggi è Severino, ma i termini della polemica sono molto simili. Zamagni: Perché quello che sta accadendo, cioè il recupero della categoria della legalità per stigmatizzare i fatti di cronaca che vedono protagonisti gli immigrati, rivela una falsa coscienza. Il punto vero, invece, sta nel disallineamento tra integrazione economica e integrazione sociale della popolazione immigrata. L?integrazione economica è presto ottenuta, l?obiettivo è infatti ottenere l?integrazione dell?immigrato nel mercato del lavoro del paese ospitante. L?integrazione sociale invece vuol dire accesso ai servizi di welfare dell?immigrato, e qui il disallineamento sta nel fatto che la prima forma di integrazione è di breve termine. I profili temporali del ciclo di vita degli autoctoni e degli immigrati per ciò che concerne il welfare sono diversi, c?è una asincronia tra le situazioni di bisogno e la capacità di contribuzione. Prima che l?immigrato abbia pagato tasse nella misura sufficiente per finanziare le sue spese di welfare passano in media, è stato calcolato, sette anni. L?immigrato quando arriva ha bisogno subito di tutto (come i disperati che arrivano a Lampedusa) ma può cominciare a pagare i servizi solo dopo sette anni. In Europa sta girando una proposta che sostiene che occorre che si metta in atto una «integrazione economica selettivamente dilazionata», cioè si sostiene che l?immigrato che arriva e si integra economicamente è ammesso a usufruire dei servizi sociali solo dopo 5/7 anni, anni durante i quali se l?immigrato ha bisogno di servizi di welfare, questi devono essere pagati dal paese d?origine. Così, sostengono i think tank che promuovono la proposta, eviteremo che gli autoctoni si lamentino del fatto che i servizi di welfare siano spesi a beneficio di coloro che non li hanno pagati. Ora questo principio ha dei riscontri marcatamente razzistici e immorali. Ma questa è l?origine del problema: non tanto una questione di legalità, ma il fatto che noi non vogliamo affrontare in maniera seria e costruttiva la questione dell?immigrazione. Se si vuole essere seri bisogna prendere seriamente in mano la politica migratoria. Di questo tema bisognerebbe parlare, anche a livello europeo. Vita: Nello scorso numero di Vita abbiamo scritto che la carità è anche, spesso, intelligente. è d?accordo? Zamagni: Voglio citare Giuseppe Tovini, bresciano, padre di 10 figli, avvocato, che fondò cooperative e casse rurali. Tovini è stato beatificato da Giovanni Paolo II il 20 settembre 1998, e in quell?occasione il papa citò una frase che lui lasciò come testamento: «Senza la fede i nostri figli non saranno mai ricchi, con la fede non saranno mai poveri». Una frase che fa capire che la fede autentica non può che generare opere e dove ci sono opere non c?è povertà. E c?è intelligenza della realtà.

  • Stefano Zamagni Stefano Zamagni è ordinario di Economia politica all?università di Bologna e insegna anche alla Johns Hopkins University e alla Bocconi di Milano. È considerato il padre dell?economia civile in Italia ed è stato tra i promotori della nascita del primo diploma universitario sull?economia della cooperazione e delle organizzazioni non profit. Il suo ultimo libro è Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica (Il Mulino 2004, con Luigino Bruni). Alla sua attività scientifica affianca anche l?impegno diretto nella società civile, è consultore del Pontificio consiglio Iustitia et Pax, fa parte della direzione della rivista Communitas ed è membro di commissioni di studio per le riforme legislative.

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