Politica

Lega, fine del “cerchio magico”

Bossi si dimette, il clan traballa, si rafforza Maroni

di Franco Bomprezzi

Le dimissioni di Bossi, la crisi della Lega, la fine di un’epoca, e forse anche della cosiddetta seconda Repubblica. Tutto in un giorno drammatico per il Carroccio: ecco come i giornali oggi affrontano questa pagina storica della cronaca politica italiana.

“Bossi si dimette, i segreti di un addio” è il titolo a tutta pagina in prima del CORRIERE DELLA SERA che dedica quindici pagine alla notizia. Si parte con un affresco di Aldo Cazzullo, ritratto del senatur, alle pagine 2 e 3. Ecco il passo finale del lunghissimo pezzo: “Oggi, in un sussulto tardivo di dignità, Bossi si rende conto di aver fatto male i conti, e dice: «Chiunque abbia sbagliato, qualunque cognome abbia, pagherà». Nell’ultima stagione di governo, il suo proverbiale fiuto si era esaurito. La spinta dei «barbari» si era infranta contro l’immobilismo berlusconiano e si era fatta parodia con la pantomima dei ministeri finti nel parco di Monza. Alla difesa del Cavaliere, Bossi ha pagato prezzi altissimi. Anche perché — e qui sta il suo vero fallimento — alla fine non ha portato a casa, cioè al Nord, quasi nulla: la «devolution» annullata dal referendum del 2006, il federalismo fiscale interrotto dalla crisi finanziaria; di altre bandiere storiche, dai dazi sulle merci cinesi alle ronde, meglio non parlare. Così come è meglio ricordare il Bossi purosangue delle origini anziché quello imbolsito del tramonto, che a ogni domanda sgradita risponde con il dito medio. Oggi i tre quarti d’Italia che non lo sopportava fa legittimamente festa. Altrettanto legittimo è rendere al vinto l’onore delle armi. Ora vedremo se Maroni riuscirà a rendere la Lega un partito plurale e legato agli interessi del territorio, o se farà la fine di Martelli. Di sicuro, la causa di un Nord che chiede più rappresentanza e più libertà non finisce con Bossi”. Marco Cremonesi, a pagina 6, racconta il retroscena dell’addio: “ «Mi avete preso per il culo. Ma la cazzata piu grande l’ho fatta io, tutta da solo: non avrei dovuto far entrare i ragazzi in politica». Nel giorno dell’amarezza più straziante, Umberto Bossi racconta a un amico la sua ultima serata da segretario federale della Lega. Un lungo, doloroso redde rationemcon la famiglia: «Qualcuno me lo aveva anche detto: “Umberto, devi scegliere tra la Lega e i figli”. Lo sapevo anch’io, avrei dovuto scegliere la Lega. I figli potevano fare qualcosa d’altro». Nel pomeriggio di mercoledì, infatti, Bossi ha abbandonato via Bellerio mentre la segreteria politica del movimento era ancora in corso. Le evidenze di quello che non aveva mai voluto vedere gli sono state rivelate in un’epifania progressiva di fatti, circostanze ed eventi che fino a quel momento aveva sempre, letteralmente, ignorato”. A pagina 8 il commento di Berlusconi: “Un colpo al cuore”. Altro pezzo fiume alle pagine 10 e 11, con la firma di Dario Di Vico: “Limiti e illusioni del primo nordismo fermo a Gemonio”. Scrive Di Vico: “Sembrerà singolare ma quello che manca alla Lega, dal Piemonte al Veneto, da qualche tempo a questa parte è proprio una lettura delle trasformazioni del territorio che li ha visti trionfare, il Nord. Il primo nordismo si è fermato a Gemonio. Eppure basterebbe monitorare l’analisi dei flussi di persone e merci lungo l’asse della A4 per avere la dimostrazione non solo che il federalismo tende a frammentare l’economia reale ma che oggi bisogna cambiar registro se si vuol essere credibili agli occhi dei Piccoli e delle partite Iva. Non basta qualche comizio contro la globalizzazione, occorre costruire progetti a rete, insegnar loro a battere i mercati esteri e a superare i campanilismi. Si racconta di una riunione in cui una delegazione di operatori cinesi si è trovata ad ascoltare quattro differenti speech di amministratori italiani del Nord che magnificavano, in concorrenza tra loro, le virtù del proprio territorio. Si tramanda che gli asiatici non capirono e gli imbarazzati interpreti si rifiutarono di spiegar loro l’arcano”. Tremende e impietose le intercettazioni dell’inchiesta sull’ex tesoriere della Lega, Belsito, pubblicate alle pagine 12 e 13. Il titolo dice tutto: “Gli manteniamo moglie e figli Se lo sanno i militanti è finito”. E quanto larga sia la rete della disinvolta gestione dei soldi pubblici lo si capisce dal pezzo di Fiorenza Sarzanini a pagina 14: “Nella ragnatela di rapporti che aveva tessuto negli ultimi anni, Francesco Belsito si muoveva con disinvoltura grazie alla gestione dei soldi. E nella sua lista di beneficiari il tesoriere della Lega aveva inserito anche Roberto Calderoli. Le telefonate intercettate e i riscontri effettuati dai carabinieri del Noe per conto dei pubblici ministeri di Napoli — Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock e Francesco Curcio — svelano quanto fitta fosse questa rete. E consentono di scoprire che Stefano Bonet, l’imprenditore in affari con Belsito e adesso finito sotto inchiesta con lui per riciclaggio, aveva ottenuto commesse anche dal Vaticano mentre il tesoriere trattava un affare con Selex, società controllata da Finmeccanica. Nella lista dei politici in contatto con i due ci sono il parlamentare del Pdl Aldo Brancher che avrebbe ricevuto un contributo di 150 mila euro «per la festa del Garda» e il suo collega di partito Filippo Ascierto, «referente per i problemi con le forze dell’ordine», il leghista Francesco Speroni «che ha fatto il fondo che hai fatto tu con la Tanzania» e Gianpiero Stiffoni, componente del comitato amministrativo del Carroccio indicato dagli investigatori come uno dei destinatari «di rilevanti somme di denaro»”. Infine l’editoriale, in prima, di Pierluigi Battista: “Il Po mormorava”. Ecco un passaggio: “Bossi era il leader dell’unico partito «vero» della Seconda Repubblica. Ma il popolano prigioniero della sua paranoia politica, sempre più ossessionato dal «complotto» mano a mano che la sua leadership si indeboliva, ha perso sempre più contatto con il mondo vasto dei ceti produttivi del Nord che nella Lega avevano visto uno sfogo e una scommessa. Bossi si rinchiudeva nel suo recinto sacro. Riceveva l’omaggio devoto del popolo che si riuniva sui pratoni di Pontida, si commuoveva per l’ampolla alle fonti magiche del Po, urlava «secessione» per sentirsi più forte. Ma, fuori della cerchia militante, chi aveva creduto nella rivolta fiscale, nella libertà dalle pastoie burocratiche e stataliste, nell’affrancamento del Nord non si fidava più già da tempo del miracolo leghista”.

LA REPUBBLICA apre con un titolo asettico (“Lega, è finita l’era di Bossi”) ma si appassiona talmente alla caduta del Senatur da dedicargli ben 14 pagine. Inaugurate da un’intervista proprio a lui: «mi sento colpito, ma non mi hanno sconfitto. La Lega è abituata a combattere, e lo farà anche questa volta», l’intento è quello di «colpire me attraverso la mia famiglia. Bisogna colpire Bossi per far fuori la Lega», «mi sono dimesso, ma combatto. Da semplice leghista. Umberto Bossi, militante della Lega. Questo è per sempre». Di contorno la ricostruzione della giornata di ieri, analisi, commenti e un altro colloquio. Con Roberto Maroni: “Non guardiamo in faccia nessuno è il momento della pulizia. Al congresso un candidato unico” è il titolo. «La decisione è stata inaspettata…. Ci ha detto di averlo fatto per il bene della sua famiglia e della Lega. Io lo considero un grande atto di dignità e di coraggio. Ancora una volta ci ha salvato. Lui ha proposto i nomi dei tre reggenti. Ed è stato lui a dire che il congresso va fatto ad ottobre. Perché quando un segretario si dimette, si fa un congresso. La democrazia lo reclama». Fra le analisi, si segnalano quella di Natalia Aspesi (“Il potere delle madonne e delle streghe”) e il ritratto del “leader venuto dal nulla per abbattere Roma ladrona affossato dai conti della family” di Concita De Gregorio. Infine l’editoriale di Ezio Mauro: “La caduta degli idoli”. «Cadono ad uno ad uno gli idoli della destra italiana che fino a ieri guidavano il Paese… Le dimissioni di Umberto Bossi, affondato dalla nemesi di uno scandalo per uso privato di denaro pubblico, azzerano la politica e persino il linguaggio della Lega». «La verità è che la Lega non c’era più da tempo, e oggi ciò che ne resta affonda insieme con Bossi. Il capo barbaro degli inizi aveva un istinto politico fortissimo, un linguaggio basico dunque nuovo nella sua spregiudicatezza, un legame istintivo coi militanti, una pratica politica di estraneità al sistema politico declinante, dunque anche ai suoi vizi. La prima auto blu ha trasformato Bossi. La malattia ha fatto il resto, depotenziando il vigore di un leader in cui la fisicità (metaforizzata come virilità politica) era icona del comando, testimonianza di una ribellione perenne, conferma di una irriducibilità permanente».

Vittorio Feltri su IL GIORNALE scrive come se Bossi fosse morto fisicamente. Ne ripercorre le tappe della vita privata e politica – citando le parole della canzone di “Vita spericolata” di Vasco Rossi -, ricordando «il memorabile  faccia a faccia televisivo fra Bossi  e Ciriaco de Mita. Questi parla interrottamente per un quarto d’ora. Il Senatur lo ascolta in silenzio e esordisce  dicendo in dialetto lumbard la frase “Ma attaccati al tram!”. Mai nessuno era riuscito a smontare con un verbo e un sostantivo l’intellettuale della Magna Grecia. Da morire dal ridere. I detrattori e i nordisti hanno gioco facile oggi, compiaciuti affermano che la Lega è un partito uguale agli altri. Eppure il Senatur ha mille attenuanti, la più importante è la malattia micidiale che lo ha dimezzato, bisognoso di assistenza e incline a appoggiarsi al cosidetto cerchio magico e la famiglia.  Lo hanno fatto presidente, figura sino a ieri inesistente, perché i suoi non se la sono sentita di uccidere il padre, ma si sono accontentati di toglierselo  dai piedi.  Voglio pensare che Bossi non abbia ingannato le camice verdi, ma sia stato ingannato dagli affetti». Dal canto suo Alessandro Sallusti scrive: «Il Nord ha un debito di riconoscenza verso quel Bossi, non solo perché grazie a lui moderati e liberali di tutto il Paese hanno potuto governare l’Italia e forse domani potrebbero tornare a farlo. La Lega è servita e serve a dare rappresentanza a un pezzo di Nord altrimenti ai margini della politica. Aver nel Palazzo un partito di lotta è la migliore garanzia per la tenuta delle istituzioni, uno straordinario collante sociale».

“Canotta strappata” questo il titolo di apertura del MANIFESTO che alle dimissioni di Bossi dedica la grande foto in prima pagina che ritrae Umberto Bossi e la vignetta di Vauro che ritrae un Bossi stile clochard con il classico bastone sulla spalla alla cui estremità è appeso un fagotto da cui cadono dei soldi e il titolo “Senza famiglia”. Nel sommario che rinvia a pagina 5, interamente dedicata al caso si legge “Bossi «dimissionato» dalla Lega. Con la famiglia del «capo» travolta dallo scandalo dei finanziamenti illeciti, nel Carroccio esplodono le storiche faide tra veneti e lombardi, «maroniti» e «cerchio magico». Il timone del partito passa a un triumvirato. Maroni chiamato «Giuda» dai fedelissimi del senatur”. L’articolo  principale di pagina 5 inizia in prima con il titolo “Il crepuscolo del dio padano”, mentre a pagina 5 il titolo è “La Lega fa fuori il padre malato” «(…) Il fondatore malato e colpito dalle inchieste che coinvolgono i suoi figli e la sua famiglia politica è stato detronizzato. È l’atto finale di questo crepuscolo degli dei in salsa padana. C’è ben poco di eroico nella miserevole fine della Lega di Bossi (…)» si legge nell’articolo di Giorgio Salvetti che nel resto dell’articolo analizza la situazione sottolineando le tensioni che rischiano di emergere sempre più tra veneti e lombardi. Di spalla a pagina 5 Luca Fazio analizza il “Carroccio del futuro” come scrive l’occhiello dell’articolo intitolato “In due giorni Maroni si è preso il partito”. Fulmineo l’incipit dell’articolo «And the winner is… Roberto Maroni!», ma dopo la battuta si fa un ritratto di Maroni come di uno che ha colto la palla al balzo leggendo il «copione scritto dai magistrati di Milano, Napoli e Reggio Calabria. E dettato dai giornali (…)», Maroni è anche definito «l’ex ragazzo che negli anni Settanta girava con l’eskimo e il manifesto in tasca (…)». La conclusione ricorda che la Lega «Rimane pur sempre il primo partito all’opposizione, di un partito anti popolare come questo». Di taglio centrale un ampio articolo è dedicato all’inchiesta “Figura chiave è l’imprenditore Bonet, in rapporti con Brancher e con la Santa Sede” come annuncia l’occhiello mentre il titolo è: “Nelle carte spuntano le cliniche del Vaticano”. “Non solo Tanzania. Secondo gli investigatori Bonet e Belsito avrebbero riciclato soldi anche nell’Est Europa e in alcune strutture sanitarie cattoliche” spiega il sommario e nell’articolo che analizza le carte dell’inchiesta si ricorda, in chiusura «Come dice il vecchio adagio del giornalismo, seguire la pista dei soldi può portare lontano»”.

“Ora un’epoca è davvero finita”. È il titolo, sul SOLE 24 ORE, del Punto di Stefano Folli: «Triste fine per l’uomo che aveva inseguito un’intuizione temeraria unita a un’ambizione fallimentare: dar corpo a una misteriosa identità «padana», dichiarare superata la nazione italiana, alimentare una confusa mitologia pseudo-celtica al limite del razzismo. Ma anche imporre nell’agenda politica la «questione settentrionale», restituire al Nord una parte delle risorse economiche a cui il segmento più produttivo del territorio nazionale era abituato a rinunciare a favore del Sud. Premiare l’operosità dei singoli e la fantasie delle imprese. La biografia di Bossi contiene pagine irritanti e contraddizioni clamorose, ma non è la biografia di un politicante minore. È la storia dell’uomo che ha creato un movimento politico capace d’intercettare e anzi accendere per anni un sentimento collettivo. La Lega è stata il partito della Seconda Repubblica, qualunque cosa voglia dire questa espressione. Senza Bossi non ci sarebbe stato Berlusconi e quasi vent’anni di vicende italiane avrebbero avuto un volto molto diverso. Qualcuno dirà: sarebbero stati anni migliori. Può darsi, ma di sicuro diversi. Non avremmo avuto la scommessa perduta del bipolarismo e il sogno infranto di un federalismo velleitario. Naturalmente la Lega di Bossi era tramontata da un pezzo. Da quando si era ridotta via via a un partito di gestione del potere e del sottogoverno. Da quando aveva accompagnato senza battere un colpo il declino di Berlusconi, illudendosi di essere il motore del governo. Fino alla rottura precipitosa dopo che la trapunta del potere si era lacerata. Un intreccio opaco che ha tradito proprio la base elettorale del Carroccio e di cui restano le macerie di oggi. Gli ottimisti pensano che basti mettere Maroni al posto del leader storico, lasciando a quest’ultimo un incarico onorifico, per andare avanti come prima e magari riallacciare i rapporti con il Pdl in vista del 2013. Ma è più logico pensare che il partito, se vuole sopravvivere al suo fondatore, debba andare verso un rinnovamento pressoché totale del gruppo dirigente. I contorni dell’imbroglio al cui vertice c’era il tesoriere dimissionario sono troppo gravi per essere risolti con un piccolo «rimpasto» in via Bellerio».

ITALIA OGGI dedica spazio al Bossi gate. “Lega nella bufera, Bossi si dimette” è l’articolo a firma di Emilio Gioventù che spiega «Alla fine anche i 15 militanti presenti in via Bellerio a Milano, al grido di “Bossi, Bossi”, dopo un principio di incredulità, si sono dovuti arrendere. “Chi sbaglia paga, qualsiasi nome porti. Mi dimetto per il bene del movimento e dei militanti. La priorità è il bene della Lega e continuare la battaglia”. Sono le parole con le quali Umberto Bossi ha presentato le dimissioni da segretario della Lega Nord. Dimissioni, “irrevocabili”, nonostante le lacrime di circostanza al consiglio federale».  Franco Adriano invece propone “Bossi come Craxi pensa all’esilio” mentre Cesare Maffi firma “Maroni stava covando vendetta da 17 anni” in cui racconta i retroscena «Sul piano politico, invece, nonostante le ripetute dichiarazioni di amicizia, di soli-darietà, di univoca visione con Bossi, negli ultimi tempi Maroni, già quand’era al Viminale, ha avviato un potenziamento della propria corrente in ostilità prima sorda, poi palese, verso i bossiani. Le spaccature sono emerse sia nei congressi sia nella formazione delle liste alle odierne amministrative. Adesso lo scandalo del tesoriere Francesco Belsito, pesantissimo fin dall’inizio e aggravato dalle intercettazioni finite sui giornali, gli offre il destro per l’assalto alla fortezza bossiana». In conclusione un’intervista di Alessandra Ricciardi  a Ernesto Galli della Loggia che titola “La Lega del malaffare è figlia del federalismo allegro”.

“Il Carroccio sbanda Bossi si fa di lato” titola AVVENIRE in prima pagina accanto all’apertura che è dedicata a una grande foto del Papa che apre i riti del triduo pasquale con il titolo «Nell’obbedienza alla Chiesa il vero rinnovamento». Tornando alla Lega nel catenaccio si riporta una frase dello stesso Bossi «Mi dimetto, ma non scomparirò». Quattro le pagine dedicate, dalla 6 alla 9, con tre approfondimenti segnalati in prima pagina: due interviste “Baiocchi: la colpa è di quel clan così fedele e imbarazzante” e “Cartocci: senza i gemelli B&B finisce la politica dei movimenti”, infine un ritratto “Ascesa e caduta del Re dei padani. Dai trionfi al mesto declino”. Anche “L’Altro editoriale” del diretto Marco Tarquinio è dedicato al caso Bossi (l’editoriale è invece a firma di Massimo Camisasca ed è: “Servire la verità, conformarsi a Cristo – Per offrire il fuoco”). Scrive Tarquinio sotto il titolo “Il prezzo è ingiusto”: «“Chi sbaglia paga”, ha sentenziato ieri Umberto Bossi, costretto a lasciare la guida della Lega Nord perché toccato in modo pesante – anche personale, anche familiare – dallo scandalo (…) è fin troppo facile annotare che, in realtà, sbuffando, Bossi per ora si fa solo di lato mentre il Carroccio sbanda a ripetizione, e a “pagare” siamo noi. Paghiamo come cittadini, come elettori e come contribuenti per un errore» e per Tarquinio l’errore grava sulle spalle «di coloro che in appena 18 anni – dopo essersi vestiti di sgargiante, e spesso arrogante, “nuovismo” – sono riusciti a replicare e persino ad aggravare certi vecchi vizi della politica. Gli stessi vizi che, dopo quasi mezzo secolo, nel 1993-94 portarono alla fine della Prima Repubblica (…)». Le pagine 6 e 7 sono ricche di infografiche dalla presenza della Lega negli enti locali all’albero della famiglia di Bossi con le ramificazioni dei due matrimoni. Il titolo di apertura è “La lista della spesa per la sua Family – Dalla fuoriserie al diploma, ma anche soldi alla scuola della moglie e al sindacato leghista” , nella pagina accanto è il semplice “Bossi lascia, un triumvirato per la Lega”. Ricca di foto d’archivio  di ritratti pagina 8 per “L’ascesa e la caduta del Re del Re dei padani”, una vera e proprio Umberto story che a piè di pagina in un box presenta i primi riscontri dei sondaggisti “Alle urne ricompattamento o fuga? «Partito fermo al 9%, non ci sarà emorragia»”.

Otto pagine su LA STAMPA, tra cronaca della giornata di ieri (in realtà cronaca spiccia, gran consiglio dello stato maggiore della Lega in via Bellerio, a Milano, dimissioni irrevocabili di Bossi, nomina di un triumvirato – Maroni, Calderoli, Dal Lago – e nuovo tesoriere, Stefani), retroscena su intercettazioni e dossier dell’ex tesoriere Belsito e celebrazione della saga Bossiana dalle origini ai giorni nostri. Questa affidata a Giovanni Cerruti, che parte da un punto fermo: la parabola di Bossi come capo assoluto della Lega non si è conclusa ieri, ma la notte dell’11 marzo 2004, “L’inizio della fine”: la notte in cui, colpito dall’ictus, l’Umberto viene trasportato in clinica in Svizzera. «Da allora gli altri hanno deciso per lui», è la tesi. «Da quel momento Bossi non ha più parlato con nessuno, in via Bellerio arrivavano solo comunicazioni riportate, “Bossi ha detto che…”. Dal 2004 a oggi a fare, dire, decidere il percorso e il futuro del partito padano non è stato più il Capo, ma il cosiddetto Cerchio magico, la moglie in testa, con la designazione del figlio Renzo come erede e successore: «La Lega di famiglia, a un anno da  coccolone era già ben avviata».
 
E inoltre sui giornali di oggi:
 
L’AQUILA
IL MANIFESTO – Piccolo richiamo in fondo alla prima pagina per l’anniversario del terremoto dell’Aquila “Viaggio nella città puntellata e ancora deserta, nel terzo anniversario del terremoto che devastò l’Aquila e alla vigilia delle elezioni comunali” così l’annuncio del reportage di Franco Arminio alle pagine 6 e 7. “L’Aquila, paesaggio con macerie” il titolo di apertura “Il 6 aprile 2009 il terremoto che devastò l’Abruzzo. Il centro storico del capoluogo ancora transennato e deserto. E la gente vive altrove” recita il primo sommario mentre il secondo fa un parallelo sulla ricostruzione “Come in Irpinia trent’anni fa, i paesi sono stati ricostruiti dove erano. E tra una casa e l’altra c’è il vuoto”. Il reportage porta “A spasso nella città puntellata, nel terzo anniversario del sisma e alla vigilia delle elezioni comunali. Dove rischia di affermarsi il partito più pericoloso: quello dei tecnici. E nelle new town capisci come alla gente sia stata data la casa e tolto il paese” Due i numeri messi in evidenza: “1.100” ovvero i cantieri aperti riguardanti le case situate fuori dai centri storici e “354” cioè i cantieri chiusi per fine lavori, mentre si ricorda che ne restano 9mila da aprire. In un box in neretto dal titolo “Gabrielli: «Non ho i vantaggi che aveva Bertolaso»” si cita il numero di VITA in edicola “Mr Emergenze” con l’intervista al capo della protezione civile Gabrielli di cui sono citati un paio di stralci.

POMPEI
AVVENIRE – Richiamo in prima pagina per “Progetto in tre anni per salvare Pompei” e due pagine ricche di foto a colori al centro del giornale (pagine 18 e 19) che presentano i progetti di restauro l’intervista a Valerio Massimo Manfredi «Una capsula del tempo per l’antichità» e un’ampia intervista al ministro Oranghi di cui si sottolinea nel sommario la frase «Ben venga una sussidiarietà anche per gli scavi, ma la gestione sarà seria e avrà regole precise. Il primato assoluto e la regia saranno dello Stato».

BICICLETTE
CORRIERE DELLA SERA – A pagina 30: “Sì alle bici contromano nelle strade a bassa velocità”. Scrive Alessio Ribaudo: “«Strada a senso unico, eccetto che per le bici». Questo cartello, sogno di ogni ciclista urbano, da oggi potrebbe diventare realtà. Tradotto significa tragitti più brevi e, quindi, spostamenti più veloci imboccando «contromano» strade a senso unico pensate oggi esclusivamente per le auto. Il via libera arriva dalla direzione generale per la sicurezza stradale del ministero Infrastrutture e Trasporti che, con un parere, ha risposto a un documento della Federazione Italiana Amici della Bicicletta (Fiab). Certo, chi spera di sottrarsi impunemente al codice della Strada, trasformandosi in un «pirata» si sbaglia di grosso perché il ministero ha fissato dei «paletti» ben precisi che salvaguardano scrupolosamente la sicurezza stradale. Si potrà autorizzare questo tipo di circolazione solo «su strade larghe almeno 4,25 metri, in zone con limite di velocità di 30 km/h, nelle zone a traffico limitato e in assenza di traffico pesante»”. 

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