Welfare

L’educatore professionale prima e dopo il Coronavirus

Se è vero che il lavoro educativo è, per sua natura, pronto ad accogliere l'imprevisto, i cambi di rotta, l'incertezza, è altrettanto vero che di fronte al vacillare di quasi tutti i paradigmi relazionali noti occorre un pensiero nuovo ed originale. Occorrerà immettere una nuova consapevolezza ed informare di questa un sistema di Welfare che ha la necessità di un profondo rinnovamento

di Fabio Ruta e Andrea Rossi

In molti sostengono che ci sarà un “prima" ed un “dopo". Con in mezzo la cesura netta della emergenza Covid-19, in seguito alla quale ci chiediamo se il nostro mondo sarà come in precedenza lo avevamo conosciuto. Insieme a tante vite umane, questo “tsunami" sta portando via con sé certezze consolidate nelle nostre società occidentali, improntate alla libertà di movimento, alle relazioni sociali, alla centralità del lavoro, del commercio, del consumo. Qualcosa di invisibile in un attimo può minare le impalcature sedimentate in secoli di architettura istituzionale, politica, sociale, culturale. Il concetto di prevedibilità si dissolve ed apre le porte all'ignoto. E l'ignoto procura ansia, mette alla prova la razionalità, sottopone a stress il nostro vivere quotidiano. Quotidianità stravolta nei suoi ritmi, nei suoi costrutti ed atti, nel suo dispiegarsi. Stravolta e costretta entro le mure domestiche, insieme bunker e fortino ultimo della nostra salute. Bozzolo di sopravvivenza.

Si prova, seppur in una dimensione non punitiva ma di tutela personale e collettiva, l'esperienza del “confinamento in uno spazio limitato, ristretto". Certamente non paragonabile – per finalità, contenuti, condizioni – a quella della detenzione carceraria (e nemmeno alla libertà vigilata ed agli arresti domiciliari). Eppur si sperimenta su di sé, sul proprio corpo e su quella estensione del sé che è rappresentata dal proprio essere sociale, una brusca e radicale amputazione. Una amputazione necessaria, più che giustificata da finalità di interesse superiore: quali la stessa difesa della sopravvivenza fisica a fronte di una minaccia letale ed incombente.

Quanti film hollywoodiani e quante fiction hanno pescato nell'immaginario catastrofico del contagio, nella visione annichilente di moderne pestilenze, nello scenario desertico di città abbandonate e mute del “giorno dopo"? I principali affetti e i gesti che ci rassicurano, proteggono, che ci permettono di esistere (a partire dall'abbraccio nelle sue infinite tonalità e radici simboliche) divengono la minaccia più terribile. Ciò che è socialmente stigmatizzato come comportamento “antisociale" o addirittura definito dalle nosografie come condizione patologica o sindrome (dagli Hikikomori, a certe caratteristiche dello spettro autistico) assume improvvisamente la caratteristica di postura salvifica. Il distanziamento fisico come protezione. La socializzazione, come lo studio, il lavoro (e in certi casi anche il sesso) passano attraverso il canale tecnologico, attraverso i supporti informatici (PC, tablet, smartphone e chi più ne ha più ne metta). Gli abbracci, i saluti, finanche i commiati con le persone decedute divengono “virtuali". E la virtualità sottrae presenza e fisicità, proietta immagini. Immagini che vanno elaborate e decodificate, proprio come quelle dei vecchi proiettori sul telo bianco dei cinematografi (ormai scomparsi a beneficio di sale digitali in 3 oppure 4D, o addirittura a causa del proliferare di pacchetti a pagamento per la ricezione domestica).

Questa crisi insomma ci parla indirettamente di noi, del nostro rapporto con la tecnologia e con il mondo. Del perimetro del nostro “io" individuale e della relazione con le pluralità di comunità in cui siamo inseriti. Dalla comunità famigliare, a quella professionale, a quella territoriale, alla comunità virtuale fatta di profili social che assume sempre di più una importanza identitaria, alle comunità sportive, religiose, politiche. Allargandosi su un piano collettivo questa crisi mette in risalto come gli equilibri interni della nostra comunità nazionale e quelli tra diverse comunità nazionali potranno, dopo, non essere più gli stessi. Pone in rilievo domande sul ruolo e sulla natura della Unione Europea. Mette in risalto la interdipendenza planetaria e la velocità attraverso la quale, anche solo a causa di un virus nato in un remoto angolo o mercato della Cina, si possano modificare gli scenari globali. Ci rende consapevoli in maniera traumatica, ed evidenziandone solo gli aspetti peggiori, di essere parte di un ecosistema complesso.

Insomma il sisma non ha un epicentro. È multicentrico. Nel cuore stesso dei singoli individui ed in ogni sfera sociale, civile, economica a livello internazionale. Colpisce il reale, il materiale, ma non meno il simbolico, l'immaginario, l’“immaginale”. Tanto da creare una sorta di cortocircuito e di effetto straniamento, che ci fa sentire come protagonisti di una fiction e di un colossale Truman Show.

Abbiamo parlato di stravolgimento della routine esistenziale, di frattura delle relazioni sociali, di ansia, angoscia, confinamento, malattia, morte. Potremmo parlare anche di speranza, di cambiamento, di sperimentazione di pratiche innovative ed ecologia, di vita. Tutte queste tematiche sono oggetti di interesse pedagogico ed educativo.

È di interesse educativo il tema delle relazioni famigliari stravolte da questa emergenza, con i nipoti allontanati dai nonni. Con la cura dei figli totalmente affidata ai genitori e ancor più difficile da gestire per chi continua a lavorare, con supporti limitati e a distanza delle scuole e di altre agenzie educative. La convivenza intensificata H24 e interna ad un circuito delimitato da una soglia dei nuclei famigliari porta elementi di riflessione sulla resilienza possibile, su aspetti di condivisione spesso accantonati nella ordinaria frenesia della vita moderna.

Nell'emergenza e nell’urgenza della gestione pandemica la riflessione giocoforza ha riguardato e riguarda la tutela della salute pubblica da un pericolo cogente. E, per chi come noi si occupa di rappresentanza delle professioni educative, si è imposto il tema del “limite", del “confine" delle proprie competenze e della propria identità professionale. Il limite ed il confine può essere letto come ciò che “frena" ed “impedisce". Ma allo stesso tempo come il segno che definisce un campo, la cornice del proprio agire professionale e della riflessione teorica. Agire professionale e riflessione teorica sulla sua identità sono inanellate in un rapporto ricorsivo. Abbiamo rifiutato la definizione che spesso viene imposta (seppur quasi mai in modo esplicito, ma spesso allusivo) dal “di fuori" alle professioni educative ed agli educatori professionali in particolare: quella di mestiere “aspecifico". Ed in quanto tale caricabile di competenze altrui e delle più svariate: tali da trasformare l'educatore in una sorta di “tuttofare" demansionabile a piacimento. Ma ci siamo opposti anche a “derive interne". Ovvero a distorsioni nella percezione della propria professionalità che alcuni colleghi maturano come bisogno “compensatorio": attengono al senso di “onnipotenza", al bisogno di sentirsi sempre “indispensabili” ed “insostituibili". Si tratta di una patologizzazione del lavoro educativo e di relazione a cui talvolta si va incontro e che rischia di generare nell'altro vissuti di passività, impotenza e dipendenza. E per l'operatore si manifesta il rischio sempre incombente del burnout, particolarmente insidioso se lo specchio della realtà non restituisce la illusoria immagine eroica di sé stessi che si è andata strutturando.

Abbiamo detto tra i primi che in frangente di emergenza sanitaria e di poderosa espansione epidemiologica occorreva “mettersi di lato". Per favorire gli interventi del personale medico ed infermieristico, per evitare di essere noi stessi possibile vettore di diffusione del virus. Infettandoci ed infettando. Primum non nuocere. Sappiamo che alla base, alle fondamenta della “scala di Maslow" (la piramide dei bisogni) vi sono i bisogni “fisiologici" e “di sicurezza". Bisogni primari che attengono alla sfera della propria salute ed incolumità fisica. Bisogni il cui soddisfacimento rappresenta una “conditio sine qua non", senza la quale i “bisogni più elevati" (di appartenenza, stima, autorealizzazione) non hanno alcuna possibilità di “darsi", di essere. Abbiamo dunque – con forza – chiesto tra i primi che i centri diurni per disabili venissero sospesi temporaneamente, per tutelare soggetti fragili ed operatori. In costanza dei provvedimenti di chiusura delle scuole ci pareva assurdo che i centri diurni ospitanti soggetti fragili e vulnerabili rimanessero aperti, divenendo potenziali focolai di infezione. Ci piace pensare che la nostra azione possa avere contribuito a salvare delle vite, seppur la scelta di sospensione sia giunta tardivamente: quando si iniziava a contare i primi contagiati (e purtroppo i primi decessi) tra personale e utenza. Con uguale forza abbiamo messo in evidenza l'insensatezza delle alternative di attività domiciliare, o ancora la situazione esplosiva (anzi, purtroppo ormai esplosa…) delle residenze per anziani, e in generale le situazioni in cui la tutela dei bisogni primari non era garantita né per gli utenti né per gli operatori. Abbiamo poi riflettuto sul fatto che le uniche prestazioni educative da porre in essere in questo frangente fossero quelle assolutamente inderogabili ed urgenti, oppure quelle realizzabili a distanza tramite tecnologia. E ci siamo opposti e ci opponiamo a quelle derive che, invece, vogliono gli Educatori non solo presenti, ma impegnati con compiti e mansioni che non ci appartengono.

Il nostro spazio su Facebook “Agorà dei M.I.L.L.E./Professioni Educative" si è dovuto prontamente reinventare per questa emergenza. Siamo riusciti a incrociare, ascoltare e interpretare centinaia di quesiti che ci giungevano (e ci giungono tutt'ora) da colleghe e colleghi da tutto il Paese. Abbiamo dovuto documentarci bene ed in fretta su norme di sicurezza dispositivi di protezione individuali. Abbiamo raccolto il grido di dolore di chi ha avuto a che fare con questo virus nei propri servizi, di chi ha subito lutti o si è infettato in prima persona sul posto di lavoro. Abbiamo dato voce appunto alle denunce di DPI e protocolli di sicurezza carenti e inadeguati. Denunciando noi stessi, facendoci portavoce di richieste di maggiore tutela. Sollecitando screening per gli operatori sociali, educativi, sociosanitari attraverso i nostri canali social.

Riteniamo che sulla gestione eterogenea di questa crisi, sui ritardi, sulle mancanze e sulle inadeguatezze che in alcune Regioni sono occorsi vada fatta chiarezza. Riteniamo che il Parlamento dovrà assolvere alla propria funzione ispettiva istituendo opportune commissioni di inchiesta e indagini conoscitive. Pensiamo che si dovrà a lungo riflettere ed elaborare su quanto accaduto. Non per trovare colpevoli, responsabilità o per sapere dove puntare il dito, ma perché in futuro, se dovessero ripresentarsi simili emergenze sanitarie, occorre essere tempestivamente pronti per limitare al massimo i danni. Valorizzando e confermando le eccellenze che si sono manifestate. Ed evitando invece gli errori. Se vogliamo trovare un senso alla crisi attuale, lo dobbiamo trovare imparandone qualcosa.

Si è posto poi il problema di informare i colleghi sulle norme emergenziali che riguardano i servizi sospesi ed il loro personale. Quindi, collaborando con i sindacati, abbiamo diffuso notizie su ammortizzatori sociali, bonus economici, congedi parentali e per legge 104. I Mille sono in parte questo: una sorta di moderna riedizione delle antiche società operaie del mutuo soccorso, declinata sulle esigenze attuali dei lavoratori della educazione. Ma siamo anche un innovativo laboratorio di pensiero.

Quindi quando sopra evidenziato come postura peculiare dei Mille, non ci esonera affatto dal riflettere su una sorta di “Pedagogia della Emergenza”, che possa rispondere a bisogni che si producono in occasione di crisi come quella attuale. Poiché se è vero che il lavoro educativo è, per sua natura, pronto ad accogliere l'imprevisto, i cambi di rotta, l'incertezza, è altrettanto vero che di fronte al vacillare di quasi tutti i paradigmi relazionali noti occorre un pensiero nuovo ed originale. Quella del Coronavirus è una crisi emergenziale ancor più ardua da trattare dal punto di vista ed educativo, per certi versi, di altre. In una guerra o in una catastrofe naturale (come quelle generate dagli eventi atmosferici e da quelli sismici) si genera panico, distruzione, morte. Ma è possibile approcciarsi e farsi fisicamente prossimi, stringersi, attorno alle persone colpite. Con il Covid-19 occorre, come abbiamo detto, limitare i contatti. Dunque si tratta di attivare canali alternativi possibili, come le consulenze a distanza. Offrendo a famiglie ed utenze suggerimenti per affrontare la quotidianità, valorizzandone la resilienza.

Ma una riflessione va fatta anche e soprattutto sul “dopo" emergenza. Soprattutto ora che i contagi paiono in diminuzione e si inizia a parlare di “fase 2”. Quando si riapriranno le nostre case, i servizi, le scuole, i negozi, i luoghi di lavoro occorre giungere attrezzati all’appuntamento. Quando si sbloccherà l'Italia e il meccanismo sociale ricomincerà a funzionare scoppiettando e singhiozzando come un motore fermo da tempo, non si potrà fingere che nulla sia accaduto. Occorrerà immettere una nuova consapevolezza ed informare di questa un sistema di Welfare che ha la necessità di un profondo rinnovamento: che sappia rispondere alle domande di questo tempo. Un Welfare che ha bisogno di ben più di un tagliando per adattarsi alle necessità e emergenze di un corpo sociale sempre meno prevedibili, poiché meno standardizzate. Siamo in una società della differenziazione dove persino il diritto famigliare appare arretrato rispetto al mutare ed al trasformarsi del concetto di “famiglie", dove persino il diritto del lavoro appare arcaico rispetto ad una mutata dimensione dei “lavori" nella Italia di oggi. Mutata dimensione dei lavori che esigerebbe nuove e idonee tutele, un vero e proprio nuovo statuto dei diritto dei lavoratori.

Dunque il Welfare ha bisogno evidentemente di una continuità nei principi valoriali di fondo, ma al contempo di un aggiornamento del “software" o di quella che potremmo chiamare “cassetta degli attrezzi". In questa cassetta degli attrezzi, oggi più che mai, dovrebbero convergere diversi livelli di responsabilità. La responsabilità di interconnettersi con un sistema internazionale di protezione sociale che dovrebbe assumere sempre di più il volto di una Europa unita e solidale. La responsabilità di assumere, da parte dello Stato italiano, gli investimenti per “il sociale" e per la sanità come un investimento per il futuro. Mentre da troppo tempo sono considerati come una spesa da ridurre al lumicino. Ma una necessaria riforma del Welfare comporta anche un ingaggio della società nelle sue forme organizzate e comunitarie a non vivere gli interventi pubblici come “la tetta dello Stato" da cui assumere nutrimento senza restituire alcunché. Il Welfare deve essere una architettura che comporti vincoli reciproci, corresponsabilità, condivisione. E deve essere agile, capace di attivare nella società dinamiche virtuose di sviluppo ecologicamente e socialmente sostenibile, riducendo le sacche di assistenzialismo e passività. Interconnettendosi con un mondo della scuola e dei servizi formativi che necessita un balzo in avanti sia nella qualità dei propri device tecnologici, sia nella capacità di rapportarsi con la comunità sociale, con le realtà locali ed internazionali, produttive, economiche, scientifiche. In questo quadro si imporrà una riflessione sulla storicità dei servizi alla persona, sulla necessità di una loro evoluzione. Quindi anche necessariamente sulla formazione e sui profili delle figure professionali che in essi operano. Su questi temi intendiamo come “Associazione M.I.L.L.E./Professioni Educative" stimolare riflessioni e dibattiti, adeguando anche la nostra “Agorà” (gruppo Facebook che conta quasi 5000 aderenti, persone impegnate nei servizi educativi, in ambito sindacale, nel mondo universitario, nel lavoro sociale e di cura) affinché corrisponda sempre di più alle finalità per le quali è stata ideata.

Gli autori sono rispettivamente vicepresidente e presidente della associazione M.I.L.L.E/ professioni Educative

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