Economia

L’economia sociale e solidale alla prova degli obiettivi sullo sviluppo sostenibile

Le organizzazioni dell’economia sociale e solidale, gli enti del Terzo settore, i soggetti non profit, sono entrati in ritardo nella conversazione sugli SDG come ha dimostrato l'ultima conferenza Ilo a Ginevra. Eppure ci sono almeno tre sfide

di Gianluca Salvatori

Gli obiettivi sullo sviluppo sostenibile – in gergo SDG – riscuotono un consenso unanime e trasversale. In ogni ambiente – imprese e governi, accademia e media – nessuno ormai mette in discussione la necessità di fare i conti con il tema della sostenibilità, declinato nei 17 ambiti oggetto di una delle più efficaci campagne di comunicazione di cui le Nazioni Unite siano state protagoniste negli ultimi decenni. È straordinario, almeno nelle dichiarazioni, il salto di qualità che si registra sul tema della sostenibilità. Il consenso è pressoché universale e fa impallidire il ricordo dei precedenti Millenial Development Goals, che degli SDG sono stati i meno fortunati predecessori (anche perché il loro scopo era più limitato).

Il clima sociale e culturale è decisamente cambiato. Gli anni della recessione, con la problematizzazione del ruolo delle imprese, finanziarie ma non solo, e la constatazione dell’impotenza dei poteri pubblici nel regolare i soggetti economici, hanno lasciato una cicatrice profonda. La corsa a rivestirsi con i concetti della sostenibilità incarna la reazione dei soggetti sfiduciati nei confronti di un’opinione pubblica che ha maturato un sospetto generalizzato verso i poteri tradizionali, economici o politici che siano. Con il risultato di un movimento, spesso disordinato, alla ricerca di un radicale cambiamento di approccio. Una ricerca in cui talvolta hanno la meglio i gesti di chiusura difensiva e talvolta, come nel caso del dibattito sugli SDG, prevale invece una visione positiva, alimentata dalla speranza che perseguire un nuovo e più equilibrato paradigma di sviluppo sia davvero possibile.

Di fatto non si possono non condividere gli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile. Ad oggi sono il tentativo più avanzato di rispondere agli interrogativi sul futuro delle nostre società, senza farsi condizionare dalla tentazione di alzare nuovi muri e senza ritirarsi all’interno del perimetro delle proprie apparenti sicurezze. Perciò si spiega la popolarità degli SDG e la loro capacità di mobilitazione, che talvolta contrasta con l’effettiva coerenza tra impegni declamati e risultati raggiunti.

Non è sorprendente quindi la presa rapida e relativamente facile degli SDG sulle imprese, sui policymaker, e persino in certa misura sull’opinione pubblica. Semmai fa riflettere il fatto che gli ambienti che potevano sembrare più distanti siano stati i più veloci nel farli propri, e viceversa. Nel senso che, ad esempio, le organizzazioni dell’economia sociale e solidale, gli enti del Terzo settore, i soggetti non profit, sono entrati in ritardo nella conversazione. Forse perché, appunto, condizionati dalla sensazione che il successo del discorso sugli SDG fosse innanzitutto il risultato di un effetto compensativo, innescato da chi aveva contribuito a far esplodere la crisi e che quindi non vedeva l’ora di trovare un modo per riabilitare la propria immagine. Un po’ come sta capitando con il tema dell’”impatto sociale”, del quale sembra non poter fare a meno proprio chi fino a ieri lo ha ignorato, se non peggio.

Sta di fatto che il tenore delle discussioni, quando ci sono di mezzo i soggetti dell’economia sociale, tende ad assumere i toni di una giustificazione tardiva. È scontato che le organizzazioni dell’economia sociale e solidale siano permeate in profondità dai valori della sostenibilità. E doverlo ribadire sembra quasi superfluo, quando non addirittura un esercizio di pura retorica. Come ad esempio nell’ultima conferenza ILO, che nei giorni scorsi ha riunito a Ginevra mondo cooperativo e esponenti dell’economia sociale per parlare proprio del “naturale” allineamento di questo mondo con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile.

Eppure ci sono tre aspetti che meritano un approfondimento, al di là della ripetizione di ciò che è apparentemente scontato. Ovvero che la ESS, l’economia sociale e solidale, nasce con cromosomi di sostenibilità già profondamente inseriti nel suo DNA. Il punto è che non basta ribadirlo.

La prima questione è dimostrare di saper uscire dalla nicchia, per rispondere alle sfide attuali nella loro ampiezza. Quindi far agire la vocazione alla sostenibilità su una scala appropriata ai problemi che ci troviamo ad affrontare, senza limitarsi ai confini delle esperienze già note e collaudate. L’economia sociale deve dimostrare di potersi far carico di bisogni che richiedono una capacità organizzativa e gestionale di un ordine superiore e più complesso rispetto al ruolo al quale è abituata. Non basta ripetere che tra ESS e SDG c’è una naturale e spontanea simbiosi. Occorre dimostrare che l’economia sociale è capace di farsi carico di una strategia per lo sviluppo sostenibile in grado di rappresentare una efficace alternativa ai modelli correnti. Altrimenti si resta, anche qui, al livello delle petizioni di principio.

La seconda questione è più sottile. L’economia sociale e solidale è attesa alla prova della diluizione. In altre parole, deve riuscire a dimostrarsi una via alternativa rispetto alla conversione all’impact verso cui una parte del mainstream economico sembra orientato. In altre parole, se Unilever si candida a divenire la più grande impresa sociale del mondo, come il suo amministratore delegato ha più volte dichiarato, e Blackrock si propone come leader degli investimenti ad impatto sociale, all’economia sociale si pone il problema di far comprendere in cosa è veramente diversa dai newcomers. Può sembrare una questione di pura rilevanza identitaria. In realtà è essenziale per far comprendere le implicazioni profonde nella scelta di un modello di pensiero economico. Unilever “impresa sociale” può davvero essere equivalente ad una impresa cooperativa in cui il rapporto tra proprietà, territorio e fine sociale è costituivo e inscindibile? L’orientamento al benessere sociale e ambientale di una società Benefit offre la stessa garanzia della struttura irrevocabile di un’impresa che per legge non può distribuire i propri profitti agli azionisti e si fonda sulla condivisione dei benefici?

Una terza questione, purtroppo meno ovvia di quel che apparentemente sembri, richiede di fare i conti con la tendenza ad adeguarsi pur di competere, riducendo gli standard di qualità dell’offerta e peggiorando le condizioni di lavoro. E’ paradossale dover ricordare alle organizzazioni dell’economia sociale che è la loro capacità di essere diverse che le rende più credibili nello sposare la causa degli SDG. Eppure non è raro che nel confronto con le le imprese di capitale, siano a volte proprio queste ultime le più creative e impegnate nel mettere in discussione il Business As Usual per sperimentare nuove strade verso la sostenibilità sociale e ambientale.

Non sono questioni di poco conto. Sarebbe dunque normale aspettarsi di trovarle al centro del dibattito in cui sono coinvolti quanti hanno a cuore il futuro dell’economia sociale e solidale. Prima ancora della ripetizione rituale della propria adesione ai principi dello sviluppo sostenibile. Magari facendo tesoro delle molte occasioni in cui l’economia sociale, anziché tenere il punto della propria specifica funzione, ha rincorso le tendenze del momento, nello sforzo di attribuirsi un ruolo nei fenomeni del momento. Come è già avvenuto con la sharing economy, che veniva descritta come intrinsecamente destinata a rafforzare un approccio di economia sociale, salvo scoprire che poteva facilmente tradursi nella reincarnazione di un classico modello estrattivo e monopolistico. E come rischia di succedere di nuovo con la grande enfasi su blockchain e monete locali, presentate come promettenti strumenti di democrazia finanziaria, salvo scoprire anche qui che basta la discesa in campo del colosso Facebook con Libra, un nuovo strumento digitale di pagamento, per consegnargli il primato anche nel settore delle monete alternative.

In sintesi, per lo sviluppo di una forte e sana economia sociale c’è bisogno di affrancarsi dal complesso della giustificazione tardiva per andare sotto alla superficie. Occorre un pensiero critico che sappia argomentare le differenze strutturali rispetto ad altri approcci. Serve dedicare meno tempo a rivendicare il proprio allineamento con il nuovo mainstream e più approfondimento delle alternative che si è effettivamente capaci di mettere in campo. Solo così diventerà a tutti evidente che l’economia sociale può essere un interprete credibile dei valori dello sviluppo sostenibile.

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