Salute

L’eclissi del modello Uganda

La crisi economica rischia di compromettere il sistema di intervento di Kampala. Che era riuscito ad abbassare il tasso di prevalenza del virus

di Emanuela Citterio

«L’Hiv non è in recessione». Françoise Barre-Sinoussi, premio Nobel per la medicina insieme a Luc Montagnier per aver scoperto il virus, lo ha detto a chiare lettere di fronte al gotha degli esperti di lotta all’Aids di tutto il mondo – circa 5mila ricercatori, medici, politici e responsabili delle organizzazioni internazionali – che si sono riuniti dal 19 al 22 luglio a Cape Town, in Sudafrica.
Di progressi, soprattutto negli ultimi sette anni, ce ne sono stati. Dalla sua creazione nel 2002, il Fondo globale per la lotta all’Aids, alla tubercolosi e alla malaria ha finanziato da solo programmi per 16 miliardi di dollari in 140 Paesi, permettendo a 2 milioni e 300mila persone di ricevere un trattamento antiretrovirale. Secondo il suo direttore esecutivo, però, il virus dell’Hiv «si espande più velocemente rispetto alla nostra abilità nell’incrementare i fondi per combatterlo». I finanziamenti, ha detto Michel Kazatchkine alla conferenza sudafricana, sono ancora «noccioline» rispetto alle persone ammalate nel mondo: 33 milioni, due terzi delle quali in Africa. E se la paura per la crisi finanziaria dovesse prendere il sopravvento, hanno avvisato gli esperti da Cape Town, il rischio è quello di arretrare anche sui risultati già ottenuti. «È inconcepibile che un programma ben avviato possa essere vanificato nel giro di un paio di settimane», afferma Eric Goemare, capo missione di Medici senza frontiere in Sud Africa. «Le cliniche attorno a noi non accettano pazienti, perché le forniture antiretrovirali sono insufficienti». In Sudafrica il budget del governo per la salute è stato tagliato a causa della crisi finanziaria e le liste d’attesa si allungano ogni giorno di più, denuncia Msf. Ma anche senza considerare i tagli recenti, è sintomatico che nel Paese più avanzato del continente solo 550mila su 5,2 milioni di contagiati usufruiscano delle cure antiretrovirali.
«Anche in Uganda, dopo anni di risultati importanti, il rischio è quello di abbassare la guardia», avverte Ciprian Opyra, direttore del St. Mary Lacor Hospital di Gulu, nel Nord del Paese. Il caso ugandese, considerato un esempio da seguire per le campagne di prevenzione e i risultati ottenuti, è da qualche anno sotto stretta osservazione. La prevalenza del virus sulla popolazione è scesa dal 15% degli anni 90 al 5% del 2007, ma l’ultimo rapporto di UnAids ha rilevato segni di una possibile ripresa. L’Uganda è anche fra i sei Paesi africani in cui Msf registra interruzioni nelle forniture dei farmaci e in cui gli stock si stanno esaurendo. Nonostante il Lacor Hospital sia il primo ospedale privato e il secondo dopo quello universitario della capitale Kampala e ospiti un programma italiano di lotta all’Aids dell’Istituto superiore di sanità, Opyra riesce a curare solo 1.800 adulti e 300 bambini contagiati dall’Hiv, grazie al Pepfar, il piano di emergenza per la lotta all’Aids della presidenza Usa istituito da Bush. «Abbiamo una fila lunghissima di persone in attesa», dice il direttore, «ma quello è il numero massimo di pazienti ai quali è possibile fornire il trattamento». Questo nonostante il Nord, e in particolare il distretto di Gulu, sia l’area del Paese più a rischio. I dati raccolti al Lacor, infatti, non corrispondono alla media nazionale: «I tassi di infezione sono dell’11%», ricorda il direttore, «ma c’è da dire che qui la prevalenza è sempre stata più alta a causa della guerra (le incursione armate della banda di Joseph Kony, il Lord resistance army, durate dall’87 al 2002, ndr). Dieci anni fa registravamo una prevalenza del 24%, i progressi sono stati comunque notevoli». «I governi africani devono dire la verità sulla diffusione del virus», conclude Opyra.

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