Cultura

Leadership, genere maschile o femminile?

di Maria Laura Conte

Ci lasciamo alle spalle giorni di attesa di un nuovo governo, di strategie nell’ombra, di fughe di indiscrezioni che, alla pubblicazione ufficiale dei nomi, hanno lasciato di schianto spazio alla indignazione di chi è rimasto fuori. La più rumorosa? Quella delle donne della sinistra, stordite dall’incoerenza di un partito che mentre si vanta di tutelare le istanze femminili, non riesce a imporre (o proporre?) nessuna delle sue esponenti di punta.

Si è avviata una sequenza di interviste e commenti delle anime femministe stufe di essere considerate una “riserva” speciale per la Repubblica, dove riserva significa più sgabuzzino che risorsa. Donne che, tra espressioni di rabbia e desiderio di avanzare, hanno rimesso al centro però un tema non catalogabile esclusivamente nella casella gender: la leadership. A volte emerge esplicita, in altre viaggia solo sotto traccia, sempre resta un campo minato.

Parola inglese che non ha un esatto corrispondente in italiano (che sia solo un caso?), leader-ship indica la posizione (-ship) di chi è leader, cioè chi guida, chi decide indicando ad altri (i follower) la strada da seguire. Chi si assume responsabilità, il condottiero di truppe lanciate in imprese comuni, vitali.

Anche se è fatta della stessa materia del potere, la leadership rischia spesso di essere svuotata, quando ridotta a pura auto-esposizione, apparenza.

Qualcuno dice leadership e pensa all'assegnazione di un posto in un consiglio di amministrazione o al governo. Altri invece la intendono come la capacità di muovere i processi decisionali, anche se non si finisce sui giornali: basti pensare all’influenza di chi sceglie le persone che devono occupare poltrone, o di chi sa introdurre categorie nuove in un’impresa, o di chi impone un linguaggio diverso nel dibattito comune, nuovi frame direbbe Lakoff.

In tutte le sue varianti leadership è stata declinata però soprattutto come parola di genere maschile. E su questo lavorano le donne da quando hanno cominciato a confrontarsi con il patriarcato nella notte dei tempi.

Se n’è accorta Penelope: bella e acuta, esercitava un straordinario potere affettivo, Itaca dipendeva dal suo sguardo. Tutta l’Odissea si regge sulla polarità tra l’attesa di lei e il viaggio di lui per raggiungerla. Eppure quando si arriva a uno dei momenti cruciali, il figlio Telemaco esclude Penelope da un consesso maschile, dicendo – testuale – che si trattava di “discorsi da uomini”. Politica, appunto, non chiacchiere da femmine.

Il tempo trascorso da Penelope a Simone de Beauvoir è stato solo un battito di ciglia, il patriarcato è rimasto appena scalfito: la scrittrice francese sosteneva che gli uomini hanno favorito il proprio sesso, e continuano a farlo, o per interesse o per inerzia. Non si rendono conto che il mondo è cambiato e per loro risulta più rassicurante restare in un club per soli maschi. Così si nominano e selezionano tra di loro. Ma non sono sessisti, dichiarano.

Gli uomini non si rendono conto che il mondo è cambiato.

Per loro risulta più rassicurante restare in un club per soli maschi.

Simone De Beauvoir

Leggere il passo di mezzo secolo fa “sui tempi che sono cambiati”, e paragonarli agli scambi sui social media oggi ha un effetto straniante: sembra che siamo allo stesso punto, possibile? A gridare contro il club esclusivo per soli maschi, a chiedere di entrarci? A mendicare posti di “potere”, a dibattere se occorre diventare più tattiche nello scegliere la cordata giusta di un maschio?

Penelope forse non era ancora abbastanza attrezzata, ma noi adesso non avremmo scuse, per capire che così non si fa tanta strada, che in sé il meccanismo della contrapposizione, della scissione, è un vicolo cieco.

Si comincia attorno ai vent’anni, da femministe in erba, a contare le percentuali dei relatori maschi, sempre schiaccianti se non esclusive rispetto a quelle femminili, a eventi e conferenze. E poi diventa un meccanismo automatico: si legge un programma e scatta il conteggio. Che in genere si accompagna a una domanda: ma se non sono qui, a quel tavolo, a pontificare, a presentare una legge, a prendere le decisioni, dove sono le donne? Visto che studiano, lavorano e partecipano della vita comune.

Forse la maggior parte sta dove non le si vede: opera in “cucina” (metaforicamente), dove si scrivono piani, dove si insegna, dove si cura, dove si serve, dove si educa.

Ma questo è sufficiente come alibi per dimenticarle? O è proprio là, in quei luoghi di cura – in senso lato – che si custodisce un’altra forma di leadership?

Avete idea di quanti libri si scrivono sulle donne in un anno? Avete idea di quanti sono scritti da uomini? Sapete di essere l'animale forse più discusso dell'universo?

V. Woolf

Domande incrociate per rispondere alle quali occorrerebbe sintesi, non antagonismo. Sintesi come con-correnza, non pretesa.

Posto che anche il patriarcato non se la passa molto bene oggi, sarebbe ora di alzare il tiro, cioè con-correre – appunto – al bene comune. Se non ci sono donne ai posti in prima fila in politica, non è un problema né solo delle donne né solo degli uomini, è un problema di quanto ci stia a cuore il bene comune.

Una leadership ripensata con questa meta si riapproprierebbe del suo essere soprattutto una questione di relazioni, non di posti da okkupare: il soggetto è consapevole che il potere delle persone, in quanto capaci di esserci e incidere nella realtà, è qualcosa di superiore alle presunte “persone di potere”.

Questa leadership – dalle cucine fino ai ministeri – è quella capace di trasformare, di costruire, di fare posto all’altro. Di generare.

In questo, in effetti, è molto femminile.

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