Welfare

«Le vittime venivano da me con i denti saltati». Parla la garante del carcere

Emanuela Belcuore, la Garante dei diritti delle persone private di libertà personale dell’area di Caserta, si è insediata a giugno 2020, due mesi dopo i fatti. «Mi sono trovata a gestire la ricostruzione morale del rapporto di fiducia tra detenuti e istituzioni che una vicenda così rade al suolo, come un terremoto», racconta. L'intervista

di Barbara Polidori

Il libero arbitrio è tra i principi che differenziano l’uomo dagli animali. Per legge i detenuti della Casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, alle porte di Caserta, non sono liberi, eppure questo non li rende meno umani. Non ci sono dubbi anche sul fatto che quella avvenuta il 6 aprile 2020 ai danni di 292 detenuti della sezione Nilo sia una “mattanza”, un vuoto umanitario con l’intenzione di trattarli proprio come animali. “Domate il bestiame”, “Li abbattiamo come vitelli”: sono alcune delle considerazioni che 52 agenti di polizia penitenziaria, oggi in misura cautelare, hanno condiviso sui detenuti prima di picchiarli brutalmente entro le mura del carcere. A guidarli non la giustizia bendata, principio cardine delle Forze dell’Ordine, ma una morale distorta che li ha resi ciechi, immemori dei diritti delle persone, qualsiasi sia il loro grado di giudizio. A sconvolgere di questa vicenda però, non è tanto che gli agenti coinvolti esaltino “il sistema Poggioreale”, come si apprende dalle carte della Procura, ma la visione miope che tutt’oggi si ha in Italia della macchina processuale, per cui chi si macchia di un reato è destinato a essere socialmente nient’altro che un “carcerato di merda”, un limbo in cui i diritti primari spesso sono negati a tal punto da non aver nemmeno qualcuno a rappresentarli tra le sbarre. Ed è in questo inferno di ingiustizie che il ruolo del Garante dei diritti delle persone private di libertà personale diventa essenziale.

Come ricostruire la fiducia nelle istituzioni
I fatti si inseriscono in un quadro complesso. Già da marzo 2020 la tensione nelle carceri italiane cresce a causa delle discutibili condizioni igieniche e del sovraffollamento degli edifici: secondo l’associazione Antigone, in quel periodo circa 61.000 persone erano recluse a fronte di 50.000 posti regolamentari, con un tasso di affollamento ufficiale superiore al 120%. Solo nel mese di marzo, sono 27 i penitenziari italiani in cui si verificano proteste dei detenuti. Tra questi anche il carcere di Santa Maria Capua Vetere, una struttura pressocché recente, di soli 25 anni, dove oggi opera Emanuela Belcuore, Garante dei diritti delle persone private di libertà personale dell’area di Caserta. L'intervista.

A turbare i detenuti c’è stata di base una preoccupazione generale sulle condizioni igenico-sanitarie in cui vivevano e il timore dei contagi da Covid19. Ma quali erano, al momento dei fatti, le reali condizioni della struttura?
Molto critiche: il carcere fu costruito da principio senza rete idrica, l’acqua veniva portata con le autobotti. Sono solo alcune delle difficoltà a cui sono sottoposti ogni giorno i detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Solo pochi giorni fa, per esempio, c’è stato un blackout elettrico che ha impedito loro di informarsi tramite notiziari, in più non ci sono stati recapitati nemmeno i quotidiani a cui siamo regolarmente abbonati… Alla detenzione, al distanziamento fisico, si aggiunge così un drammatico isolamento sociale>>.

Quanto si è aggravato a causa del Covid19?
Aggravato? Le persone hanno perso ogni tipo di contatto: sono stati imposti il blocco dei colloqui coi Garanti, il blocco degli ingressi dei volontari e gli incontri coi familiari. In più, i minuti di conversazione e videochiamata a disposizione dei detenuti sono stati scalati. Lei capisce che due minuti in più in una conversazione possono fare la differenza soprattutto in un periodo drammatico come quello della pandemia?

Quali erano le motivazioni?
A quanto pare la rete telefonica non supporterebbe il traffico dati…

Com’è stata gestita invece la campagna vaccinale a Santa Maria Capua Vetere?
La sanità ha una gestione distaccata da quella del carcere ma i detenuti hanno aderito tutti positivamente. Sono stati fatti tamponi e vaccinazioni a tappeto, e questi risultati si devono soprattutto alla tempestività di intervento della direttrice del carcere.

Alcuni detenuti lamentano però i costi spropositati sui beni di prima necessità venduti nel carcere: un tubetto di disinfettante per esempio verrebbe all’incirca 6 euro. Gran parte di loro ha alle spalle difficoltà economiche e contesti indigenti. Almeno in pandemia non sarebbe il caso di rendere prevenzione e salute accessibili a tutti?
Sono completamente d’accordo con lei, sa quante battaglie stiamo affrontando a riguardo?

Lei si è insediata a giugno 2020, due mesi dopo i fatti e a seguire un’interrogazione parlamentare all’ex ministro della giustizia Bonafede. Qual era l’aria che si respirava in quei mesi?
Le vittime venivano da me con i denti saltati e una paura immensa di parlare. Immagini cosa voglia dire denunciare un agente e incontrarlo poche ore dopo che ti ha picchiato… Molte di loro, oltre ai danni fisici, stanno ancora combattendo con traumi psicologici che li perseguiteranno per anni.

Ma prima di Lei qualcuno aveva raccolto mai le testimonianze di queste persone?
Le dirò: prima di giugno 2020 c’era soltanto il Garante regionale, Samuele Ciambriello, a rappresentare i detenuti di Santa Maria Capua Vetere. I detenuti non avevano nessuno a tutelarli per la zona di Caserta prima che mi insediassi io.

In un contesto già di per sé difficile in cui intervenire, questa vicenda quanto ha oberato il suo ruolo?
Mi sono trovata a gestire la ricostruzione morale del rapporto di fiducia tra detenuti e istituzioni che una vicenda così rade al suolo, come un terremoto. Bisognerebbe tenere in conto quali responsabilità abbiamo noi Garanti e ricordarlo ai politici che puntano il dito contro il nostro lavoro.

Si riferisce alle ultime dichiarazioni del Leader della Lega, Matteo Salvini?
Quello che ha affermato è vergognoso. Voglio rispondergli però ricordando quando disse "vorrei vedere i garanti con l’olio bollente addosso": venga qui, in carcere, e ci chieda scusa. Massima solidarietà alla polizia penitenziaria ma le mele marce ci sono e vanno allontanate dal cesto, non si può fare di tutta l’erba un fascio.

Alcune delle affermazioni espresse dagli agenti della polizia penitenziaria nella chat di WahtsApp, agli atti della Procura, pare riguardassero anche il vostro lavoro, come ha sostenuto lo stesso Ciambriello. Tra queste: “È un Garante di merda, perché non torna a fare il prete?”. Perché il vostro lavoro è denigrato persino da chi dovrebbe difenderlo?
La figura del Garante può risultare fastidiosa, la verità è che in un paese civile il garante non dovrebbe nemmeno esistere, perché i diritti delle persone dovrebbero essere imprescindibili. Sa quante volte invece ho messo piede in carcere in un anno? Ottantadue, pensi quanto c’è bisogno invece del nostro lavoro. Perché è questo il nostro ruolo: agire lì dove lo Stato è manchevole. Tra chi usa la linea morbida della retorica e chi, come la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, parla severamente di oltraggio alla divisa e tradimento della Costituzione, ciò che emerge oggi è una dicotomia morale nel dibattito pubblico che associa indiscriminatamente i detenuti al male e il poliziotto al bene. Uno stereotipo che sottrae alla giustizia, allo Stato, i suoi spazi di intervento e che minaccia anche il lavoro dei Garanti dei detenuti. Sarà la giustizia, ora, a dover giudicare i 52 agenti indagati, rispondendo alla profezia di uno di loro, proprio dalla chat WhatsApp agli atti della Procura: “Siamo ai piedi di pilato”.

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